IL CERVELLO SCEGLIE PER CHI SOFFRIRE: LA VERITÀ SCOMODA SULL’EMPATIA SELETTIVA
C’è una scena che probabilmente riconosci: scorri le pagine dei social, vedi immagini di tragedie lontane, migliaia di persone che hannp avuto la loro casa distrutta da un terremoto e soffrono, e dopo pochi secondi passi oltre senza che il tuo cuore si sia davvero comosso. Poi, improvvisamente, vedi la foto di un cane abbandonato nella tua città e senti le lacrime salire. Ti senti in colpa per questo? Non dovresti. O meglio, dovresti capire cosa sta realmente accadendo nel tuo cervello
Le neuroscienze ci rivelano una verità profondamente scomoda: l’empatia non è democratica, non è universale, non è quel sentimento nobile e imparziale come ci piace immaginare. L’empatia è selettiva, ed è il tuo cervello a decidere per chi vale la pena soffrire
Ci piace pensarci come esseri compassionevoli, capaci di sentire il dolore altrui indipendentemente da chi sia quella persona. Ma la realtà neurologica è diversa e molto più complessa.
Il nostro cervello, macchina straordinaria di efficienza evolutiva, ha un budget energetico limitato per l’empatia. Non può permettersi di provare la stessa intensità emotiva per ogni essere vivente che soffre, quindi seleziona, filtra, gerarchizza secondo criteri che spesso non controlliamo consapevolmente
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Cosa hanno scoperto davvero le neuroscienze sull’empatia
Gli studi di neuroimaging funzionale, in particolare la risonanza magnetica funzionale, hanno rivelato qualcosa di straordinario e inquietante allo stesso tempo
Quando osserviamo qualcuno che soffre, nel nostro cervello si attivano aree specifiche: la corteccia cingolata anteriore e l’insula, regioni coinvolte nell’elaborazione del dolore proprio. In sostanza, il cervello simula letteralmente il dolore altrui come se fosse nostro. Questo meccanismo, mediato dai neuroni specchio, è alla base dell’empatia
Ma ecco la parte scomoda: l’intensità di questa attivazione non è uguale per tutti. Dipende da chi sta soffrendo
Quando la persona che soffre appartiene al nostro gruppo, quello che i neuroscienziati chiamano in-group, che sia definito da etnia, cultura, ideologia, vicinanza geografica o semplicemente familiarità, l’attivazione neurale è significativamente più intensa. Quando invece la sofferenza riguarda qualcuno percepito come esterno, un out-group member, l’attivazione è ridotta, a volte quasi assente
Non è cattiveria, non è mancanza di valori morali. È neurobiologia pura. Il cervello ha sviluppato questo meccanismo per una ragione evolutiva precisa: le risorse cognitive ed emotive sono limitate, e nei nostri antenati aveva senso investire empatia principalmente verso membri del proprio gruppo, quelli con cui si condivideva la sopravvivenza quotidiana, per noi e’ diverso
Il problema è che viviamo in un mondo globale interconnesso dove questo meccanismo arcaico puo’ creare conseguenze devastanti
La somiglianza percepita come filtro primario
Uno degli studi più rivelatori in questo campo è stato condotto da Xu e collaboratori nel 2009. I ricercatori hanno mostrato a partecipanti cinesi e caucasici dei video di volti della propria etnia e dell’etnia opposta che ricevevano stimoli dolorosi. I risultati sono stati inequivocabili: i neuroni specchio si attivavano molto più intensamente quando il dolore veniva inflitto a un volto della propria etnia
Questo non significa che i partecipanti fossero consapevolmente razzisti. Significa che il cervello, a un livello pre-cognitivo, prima ancora che la coscienza possa intervenire, ha già fatto una selezione. Ha già deciso che quella sofferenza merita più attenzione, più risorse emotive, più empatia
E non riguarda solo l’etnia. Riguarda qualsiasi forma di somiglianza percepita: ideologia politica, fede religiosa, classe sociale, persino la squadra di calcio per cui si tifa. Il cervello cerca continuamente segnali di appartenenza e su quelli costruisce gerarchie empatiche invisibili
La vicinanza come amplificatore emotivo
C’è un altro fattore potente che modula l’empatia: la vicinanza, sia fisica che emotiva. Il cervello attribuisce automaticamente maggiore valore alla sofferenza che accade vicino a noi, nello spazio e nel tempo
Questo spiega perché una tragedia locale con dieci vittime ci tocca profondamente, mentre una catastrofe lontana con diecimila morti ci lascia relativamente indifferenti. Non è cinismo, è architettura neurale. Il cervello percepisce la vicinanza come indicatore di rilevanza personale: ciò che accade vicino potrebbe influenzare direttamente la mia sopravvivenza, quindi merita più attenzione emotiva
Ma c’è qualcosa di ancora più sottile e doloroso: la vicinanza emotiva. Chi vediamo regolarmente, chi fa parte della nostra vita quotidiana anche marginalmente, attiva più facilmente la nostra risposta empatica rispetto a chi rimane invisibile. Questo crea un fenomeno devastante: l’invisibilità sociale
I senzatetto che passano accanto a noi ogni giorno, gli anziani nelle case di riposo, i migranti nei centri di accoglienza, tutte queste persone diventano neurologicamente invisibili. Il cervello, sovraccarico di stimoli, risparmia energia non attivando empatia per chi considera al di fuori del cerchio di rilevanza immediata
E questo non è solo crudele, è anche plastico: più ignoriamo qualcuno, più il cervello si allena a non sentire empatia per quella persona. Si creano letteralmente autostrade neurali dell’indifferenza
La stanchezza compassionale e l’esaurimento empatico
C’è un altro aspetto cruciale che le neuroscienze hanno portato alla luce: l’empatia non è inesauribile. Dopo un’esposizione prolungata alla sofferenza altrui, il cervello attiva meccanismi di protezione e letteralmente spegne la risposta empatica
Questo fenomeno, chiamato compassion fatigue o stanchezza compassionale, è ben documentato nelle professioni d’aiuto: medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, tutti coloro che quotidianamente sono esposti al dolore altrui sviluppano una sorta di anestesia emotiva. Non è insensibilità acquisita per scelta, è neuroprotezione automatica. Ho lavorato 13 anni in un grande ospedale e ho visto questo in quasi tutti i medici, infermieri e ostetriche….ma non succedeva in me!!!!!!!!!!!!
Il cervello dice: se continui a sentire tutto questo dolore ti consumerai, quindi ti proteggo disattivando temporaneamente l’empatia.
È un meccanismo di sopravvivenza, ma con un costo sociale enorme: le persone che più avrebbero bisogno di compassione finiscono per riceverla da chi è neurologicamente esausto
Perché le storie singole ci toccano e le statistiche ci lasciano freddi
C’è un paradosso famoso nello studio dell’empatia, chiamato il paradosso dell’empatia identifiable victim effect. Una singola storia, un volto, un nome, un dettaglio personale attivano la nostra empatia molto più intensamente di qualsiasi statistica per quanto devastante
Possiamo leggere che centomila persone sono morte in una carestia e sentire solo un vago dispiacere intellettuale. Ma se leggiamo la storia di Amina, sette anni, che ha perso i genitori e cammina scalza cercando cibo, improvvisamente il cuore si stringe
Le neuroscienze spiegano questo fenomeno attraverso il concetto di processing fluency: il cervello elabora più facilmente informazioni concrete, narrative, personali rispetto a dati astratti e statistici. Le storie attivano aree cerebrali legate alla simulazione esperienziale, ci fanno letteralmente vivere quella sofferenza per un istante. I numeri invece attivano aree cognitive più fredde, meno connesse al sistema emotivo
Madre Teresa di Calcutta lo aveva intuito quando disse: “Se guardo la massa non agirò mai. Se guardo l’uno, il singolo, lo farò”. Non aveva studiato neuroscienze, ma aveva compreso qualcosa di profondamente vero sul funzionamento della compassione umana
Il lato oscuro che non vogliamo vedere
Ora arriviamo alla parte più difficile da accettare: questo meccanismo neurologico dell’empatia selettiva alimenta strutturalmente fenomeni sociali devastanti
Il razzismo inconscio, quello che anche persone sinceramente antirazziste possono manifestare, ha radici in questi circuiti neurali automatici. Non vediamo l’altro come completamente umano perché il nostro cervello non attiva per lui la stessa risonanza empatica che attiva per chi ci assomiglia
Il tribalismo politico, quella incapacità crescente di provare compassione per chi vota diversamente da noi, è neurologia prima ancora che ideologia. Il cervello categorizza chi la pensa diversamente come out-group, fuori dal gruppo e automaticamente riduce l’empatia
La disumanizzazione sistematica di interi gruppi sociali, che storicamente ha permesso genocidi e pulizie etniche, inizia sempre con questo meccanismo: far sì che il cervello delle persone smetta di riconoscere l’altro come meritevole di empatia
E la cosa più inquietante è che questo avviene in gran parte sotto la soglia della consapevolezza. Prima che tu possa pensare consapevolmente “questa persona merita la mia compassione”, il tuo cervello ha già fatto i suoi calcoli automatici, ha già modulato l’intensità della tua risposta emotiva
Ma c’è una porta, che si puo’ socchiudere o aprire sempre
Sarebbe devastante se questa fosse tutta la storia. Ma le neuroscienze ci offrono anche qualcosa di profondamente speranzoso: la neuroplasticità
I circuiti dell’empatia, come tutti i circuiti neurali, possono essere modificati, espansi, rieducati. Non siamo condannati alla geografia empatica che ci è stata data dall’evoluzione e dalla nostra storia personale
Studi sulle pratiche contemplative, in particolare la meditazione sulla compassione o loving-kindness meditation, hanno dimostrato che è possibile letteralmente ricablare questi circuiti. Dopo settimane di pratica costante, i praticanti mostrano aumenti misurabili nell’attivazione delle aree empatiche anche verso estranei e membri di out-group
L’esposizione intenzionale e sostenuta a narrazioni che umanizzano l’altro, che ci mostrano la sua vita interiore, le sue paure, le sue speranze, può gradualmente espandere il nostro cerchio di empatia. Non è automatico, richiede intenzione e pratica, ma è possibile
La letteratura, il cinema, l’arte in generale hanno questo potere straordinario: farci vivere dall’interno l’esperienza di chi è diverso da noi, costringendo gentilmente il nostro cervello ad attivare empatia dove normalmente non lo farebbe
E c’è qualcosa di ancora più profondo, che connette le neuroscienze con quella dimensione spirituale e quantistica di cui abbiamo parlato altre volte: la consapevolezza stessa modifica il fenomeno osservato
Quando diventi consapevole dei tuoi pregiudizi empatici, quando riconosci che il tuo cervello sta facendo queste selezioni automatiche, già in quella consapevolezza si apre uno spazio. Uno spazio dove puoi scegliere di non identificarti completamente con quella prima risposta automatica, dove puoi decidere consapevolmente di dirigere la tua attenzione, la tua intenzione compassionevole, anche verso chi neurologicamente non attiverebbe quella risposta
Non è facile, va contro milioni di anni di evoluzione. Ma è possibile, ed è forse una delle pratiche più rivoluzionarie che possiamo intraprendere come esseri umani
Cosa possiamo fare concretamente
Allora cosa facciamo con questa conoscenza scomoda? Come viviamo sapendo che il nostro cervello sceglie per chi soffrire?
Prima di tutto, abbandoniamo il senso di colpa sterile. Non serve sentirti in colpa perché piangi per il cane del vicino e non per una tragedia lontana. Quella colpa è solo un altro peso inutile. Quello che serve è consapevolezza trasformativa
Inizia a notare i tuoi pregiudizi empatici. Quando senti empatia facilmente? Quando invece senti quella sottile resistenza, quella distanza emotiva? Non giudicare, osserva semplicemente. La consapevolezza senza giudizio è il primo passo verso qualsiasi cambiamento neurologico
Scegli intenzionalmente di esporti a storie, narrazioni, testimonianze di persone che normalmente sarebbero fuori dal tuo cerchio empatico. Non bombardarti di statistiche terribili che ti paralizzano, ma cerca connessioni umane autentiche con chi è diverso da te
Pratica piccoli atti di attenzione consapevole verso chi è invisibile nella tua vita quotidiana. Guarda negli occhi il senzatetto che incontri ogni giorno, anche solo per un secondo. Chiedi il nome alla persona che pulisce il tuo ufficio. Questi gesti apparentemente insignificanti sono esercizi neurali che espandono il tuo cerchio di empatia
E forse la cosa più importante: ricorda che espandere l’empatia non significa esaurirla. Non è un gioco a somma zero dove se provo compassione per uno straniero ne avrò meno per i miei cari. L’empatia è più simile a un muscolo: più la usi consapevolmente, più si rafforza e si espande
Verso un’empatia consapevole
Alla fine, quello che le neuroscienze ci stanno dicendo non è che siamo creature egoiste e senza speranza. Ci stanno dicendo che siamo creature con un cervello antico che vive in un mondo nuovo, e che abbiamo la responsabilità e la possibilità di diventare consapevoli di questi meccanismi per trascenderli
L’empatia automatica, quella che arriva senza sforzo, è un dono ma anche una gabbia. L’empatia consapevole, quella che scegliamo intenzionalmente di coltivare anche quando neurologicamente non verrebbe, è la porta verso una compassione più vasta, più giusta, più umana
Il tuo cervello sceglierà sempre per chi soffrire, se glielo lasci fare da solo. Ma tu non sei solo il tuo cervello. Sei anche la consapevolezza che può osservare il cervello, comprenderlo e, con pazienza e pratica, rieducarlo verso una compassione che abbraccia cerchi sempre più vasti
Non è romanticismo, è neuroplasticità applicata all’evoluzione della coscienza
E forse, in questo sforzo consapevole di espandere il nostro cerchio di empatia nonostante i limiti neurologici, c’è qualcosa di profondamente sacro. C’è la scelta di vedere l’umano anche dove il cervello vede solo l’estraneo. C’è la decisione di soffrire consapevolmente anche per chi la biologia non ci chiamerebbe a sentire
È difficile, scomodo, contro-intuitivo. Ma è anche la cosa più radicalmente trasformativa che possiamo fare, per noi stessi e per il mondo che co-creiamo insieme
GRAZIE

