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 I “Fuochi Buoni”: quando le fiamme diventano medicina per la terra

 I “Fuochi Buoni” : quando le fiamme diventano medicina per la terra

(dedico questo post ad Angela Menna, nostra allieva di Dendroterapia Energetica perche’ e’ lei che me ne ha parlato, e’ lei che lavora nelle foreste del Michigan per praticare poi il Fuoco Buono. A lei con gioia e gratitudine e un grazie a voi che siete qui a leggere)

Nel cuore pulsante delle foreste ancestrali esiste una saggezza che danza tra le fiamme e sussurra verità antiche quanto il respiro stesso della terra: il fuoco non è nemico ma alleato, non distruzione ma rigenerazione, non fine ma inizio di un ciclo perpetuo che intreccia vita e trasformazione in un abbraccio incandescente di profonda ecologia

Le popolazioni indigene australiane, custodi millenari di questa conoscenza vivente, praticano da tempo immemorabile quella che viene chiamata combustione fredda o Cool burning, una danza calibrata con le fiamme dove ogni movimento è preghiera e ogni scintilla è medicina per il paesaggio che respira sotto i loro piedi attenti e riverenti

Il popolo Nawarddeken, signori della West Arnhem Land nel nord dell’Australia, ha trasformato questa pratica in arte sublime di convivenza con l’elemento igneo: su un territorio vasto quanto un milione390mila  ettari, questi maestri del fuoco tessono pazientemente una rete di piccole combustioni controllate che prevengono la devastazione degli incendi selvaggi e rigenerano continuamente il manto vegetale in un processo che ricorda il respiro stesso della natura

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La tecnica si fonda su un principio tanto semplice quanto rivoluzionario nella sua efficacia: bruciare lentamente i residui vegetali durante le stagioni fresche e umide impedisce che questi diventino combustibile per gli incendi catastrofici dei mesi torridi e aridi, trasformando una potenziale minaccia in opportunità di rinnovamento ecosistemico dove la cenere diventa nutrimento e lo spazio liberato invita nuove forme di vita a manifestarsi

Quando il sole declina verso l’orizzonte e l’aria si carica di umidità notturna, questi fuochi controllati si spengono naturalmente come candele che hanno compiuto il loro sacro dovere, lasciando dietro di sé non desolazione ma un mosaico di habitat irregolari e diversificati dove i piccoli animali trovano rifugio e le piante pioniere iniziano il loro paziente lavoro di ricolonizzazione

Ciò che rende questa pratica particolarmente affascinante dal punto di vista di quella che potremmo chiamare medicina analogica del paesaggio è la sua capacità di integrare saggezza ancestrale e tecnologia contemporanea: oggi, i ranger Nawarddeken utilizzano combustione aerea, mappatura digitale e sistemi di monitoraggio satellitare per coordinare i loro sforzi su vaste aree. senza tradire l’essenza profonda della loro relazione millenaria con il fuoco, dimostrando che innovazione e tradizione possono coesistere in un dialogo fecondo

La storia recente però porta con sé una ferita profonda: durante i secoli di colonizzazione euro-australiana, il Cool burning venne represso e dimenticato perché i colonizzatori, intrappolati in una visione binaria che vedeva il fuoco solo come minaccia da eliminare, non riuscivano a comprendere la sottile intelligenza ecologica di questa pratica, condannando così i paesaggi a una vulnerabilità crescente che oggi manifesta le sue tragiche conseguenze negli incendi sempre più devastanti che attraversano il continente

Matthew Abbott, fotografo dalla sensibilità acuta, ha dedicato anni a documentare questa pratica vitale: la prima volta venne invitato dai Nawarddeken a camminare nei loro boschi e rimase folgorato dalla vista di quelle famiglie che seguivano le linee del fuoco con la tranquillità di chi accompagna un vecchio amico fidato, non più qualcosa da temere ma presenza quotidiana da rispettare e comprendere

Circa dieci anni dopo il suo primo incontro, Abbott è tornato per il National Geographic con il progetto “Saving Forests with Fire”, catturando in immagini di straordinaria potenza visiva ed emotiva come questi guardiani della terra utilizzino strategicamente le fiamme per proteggere il loro mondo: in una delle sue fotografie preferite, una famiglia cammina seguendo la linea incandescente del fuoco in un’immagine che parla di intimità ecologica e di quella che potremmo chiamare familiarità elementale

Oltreoceano, in California, una storia parallela si sta scrivendo con inchiostro di fumo e speranza: dopo decenni di politiche forestali che hanno soppresso ogni forma di combustione naturale, trasformando le foreste in polveriere cariche di combustibile secco pronte a esplodere alla prima scintilla, lo stato americano più colpito dai gigafire, oltre 1 milione di acri, sta riscoprendo i cultural burns delle tribù native locali

“cultural burning” perché: sottolinea che non è solo una tecnica agricola, ma una pratica culturale complessa, riconosce la dimensione spirituale e comunitaria,restituisce dignità e operosita’ alle popolazioni native

Popolazioni come la Yocha Dehe Wintun Nation e la North Fork Mono Tribe hanno custodito attraverso generazioni di persecuzione e invisibilizzazione la conoscenza sacra dei fuochi buoni, quella pratica che i loro antenati utilizzavano per pulire il sottobosco, favorire la crescita di piante medicinali e alimentari, proteggere le sorgenti d’acqua e mantenere il paesaggio in quello stato di equilibrio dinamico che oggi la scienza ecologica sta faticosamente riscoprendo e tentando di quantificare

Nel 2021 la California ha finalmente approvato una legge storica che riconosce i cultural burns come strumenti legittimi e preziosi di gestione ambientale, permettendo ai praticanti indigeni di condurli senza la supervisione costante del dipartimento forestale, restituendo così dignità e autonomia a una conoscenza che aveva continuato a vivere sotterranea come brace sotto la cenere dell’oblio coloniale

Questi fuochi rituali non sono semplici operazioni tecniche di riduzione del combustibile ma cerimonie complesse che intrecciano ecologia, spiritualità e trasmissione culturale: quando i membri delle tribù accendono questi fuochi lo fanno accompagnati da canti, preghiere e gesti che connettono il presente con la catena infinita degli antenati, trasformando ogni fiamma in ponte tra mondi e ogni voluta di fumo in messaggio verso il cielo

La scienza occidentale sta lentamente riconoscendo ciò che le culture indigene sanno da sempre: i “fuochi buoni” favoriscono la salute dei suoli rilasciando nutrienti rapidamente disponibili, stimolano la germinazione di specie che necessitano dello shock termico per attivarsi, aumentano la biodiversità creando mosaici di habitat a diversi stadi di successione ecologica e possono persino incrementare la capacità del terreno di sequestrare carbonio nel lungo periodo attraverso la produzione di biochar e la stimolazione dell’attività microbica

APPROFONDIAMO:

Il biochar è un carbone vegetale molto stabile prodotto quando la materia organica brucia in condizioni di scarso ossigeno , proprio come accade nei fuochi controllati lenti. Ha una struttura porosa simile a una spugna microscopica che può persistere nel suolo per centinaia o migliaia di anni, trattenendo carbonio che altrimenti tornerebbe rapidamente in atmosfera come CO2. Questa struttura porosa offre rifugio ai microrganismi e trattiene acqua e nutrienti rendendoli disponibili alle radici

L’attività microbica stimolata riguarda principalmente:

I batteri azotofissatori che convertono l’azoto atmosferico in forme utilizzabili dalle piante, i funghi micorrizici che formano simbiosi con le radici estendendo enormemente la loro capacità di assorbimento, i decompositori che accelerano il ciclo dei nutrienti trasformando materia organica in humus fertile, e i microrganismi che producono sostanze che aggregano le particelle di suolo migliorandone la struttura

Il calore moderato del “fuoco buono” sterilizza parzialmente il suolo eliminando alcuni patogeni ma lasciando spore vitali che poi ricolonizzano rapidamente l’ambiente arricchito di ceneri minerali, creando comunità microbiche diverse e resilienti

CONTINUO

Melinda Adams, membro della tribù San Carlos Apache e professoressa all’Università del Kansas, ha coniato il termine indigenuity per descrivere questo ingegno indigeno che non separa mai la dimensione pratica da quella spirituale: secondo lei queste pratiche non riguardano solo la prevenzione degli incendi ma rappresentano un processo parallelo di guarigione della terra e dei popoli che la abitano, un doppio movimento terapeutico dove la salute dell’ecosistema e quella della comunità umana si rispecchiano e si sostengono reciprocamente

Ron Goode, capo della North Fork Mono Tribe, lo esprime con parole che risuonano di antica saggezza: noi non controlliamo il fuoco ma collaboriamo con il fuoco, una distinzione sottile ma fondamentale che ribalta completamente il paradigma dominante della gestione ambientale basata sul dominio e sul controllo, sostituendolo con un modello relazionale fondato su rispetto, ascolto e reciprocità.

NOI NON CONTROLLIAMO IL FUOCO MA COLLABORIAMO CON LUI !  bellissimo!

Per queste comunità i cultural burns servono anche a rigenerare le piante utilizzate per l’alimentazione tradizionale, per la medicina ancestrale, per l’artigianato come la tessitura di cesti che richiede rami giovani e flessibili che crescono vigorosi dopo il passaggio del fuoco: ogni fiamma diventa così strumento di sovranità culturale e di resistenza attiva contro la soppressione delle pratiche tradizionali

Ma c’è un altro aspetto profondamente terapeutico in questa pratica che tocca le corde più intime della medicina analogica: la partecipazione ai “fuochi buoni” offre ai giovani delle comunità native un antidoto potente contro il climate grief, “lutto climatico” quella sensazione paralizzante di impotenza e disperazione di fronte alla crisi climatica che affligge soprattutto le nuove generazioni, restituendo loro la capacità d’azione, connessione con le radici culturali e speranza concreta fondata sull’azione diretta

ll lutto richiede tempo, trasformazione, accettazione, proprio come il rapporto con la crisi climatica che non possiamo risolvere ma dobbiamo imparare a vivere e attraversare

Lutto = elaborazione emotiva, passaggio necessario
Capacità d’azione = trasformazione in energia generativa

Quando i giovani accendono questi fuochi sotto la guida degli anziani, quando sentono il calore sulle guance e respirano il profumo acre del fumo che sale verso il cielo, quando vedono con i propri occhi la terra rinnovarsi dopo il passaggio delle fiamme, recuperano quella che potremmo chiamare autoefficacia ecologica: la consapevolezza profonda e incorporata di poter contribuire attivamente alla salute del pianeta attraverso gesti concreti radicati nella saggezza ancestrale

Il fotografo Matthew Abbott, seguendo i ranger Warddeken attraverso boschi illuminati dalle fiamme controllate, ha catturato immagini che parlano di questa intimità con l’elemento igneo: famiglie intere che camminano tranquille accanto alle linee di fuoco, bambini che osservano le fiamme non con terrore ma con rispetto curioso, anziani che indicano e spiegano, tramandando una conoscenza che si apprende non sui libri ma camminando sulla terra calda e respirando l’aria carica di trasformazione

Avevo 15 anni quando mio padre mi ha portato in un bosco dove erano stati accesi “fuochi buoni” ed io ho provato una emozione che mai dimentichero’: camminavo accanto al fuoco con meraviglia con stupore, niente paura  solo una gioia profonda: io e il fuoco eravamo amici!

Questa pratica dei “fuochi buoni” ci invita a ripensare radicalmente al nostro rapporto con ciò che consideriamo pericoloso o distruttivo: il fuoco nella visione indigena non è né buono né cattivo in sé ma dipende dalla relazione che intratteniamo con esso, dalla nostra capacità di ascoltarlo, comprenderlo e utilizzarlo con quella che potremmo chiamare intelligenza ecologica relazionale, una forma di sapere che nasce dall’osservazione paziente, dall’esperienza accumulata attraverso generazioni e da una profonda umiltà di fronte ai processi naturali

La combustione fredda diventa così metafora potente di un approccio alla vita e alla salute che riconosce il valore delle piccole crisi controllate, delle perturbazioni moderate che prevengono i collassi devastanti, dell’accettazione della trasformazione come dimensione costitutiva dell’esistenza: così come il fuoco buono previene l’incendio catastrofico eliminando gradualmente il combustibile accumulato, così nella vita individuale e collettiva le piccole morti simboliche, le trasformazioni graduate, i cambiamenti consapevoli possono prevenire le crisi esistenziali che ci travolgono quando resistiamo troppo a lungo al flusso naturale del mutamento

Nel contesto della medicina analogica questa pratica ci insegna che non sempre la risposta migliore è sopprimere, eliminare, combattere: talvolta la vera saggezza terapeutica consiste nell’accompagnare, modulare, collaborare con le forze che attraversano il corpo individuale e il corpo più vasto della terra, riconoscendo che salute non significa assenza di perturbazione ma capacità di attraversare le trasformazioni mantenendo coerenza e resilienza….e amore

I popoli indigeni che praticano i “fuochi buoni” ci mostrano una via diversa per abitare questo pianeta in fiamme: non la fuga nel tecnologicamente estremo né il ritorno impossibile a un passato idealizzato, ma una integrazione sapiente di conoscenze antiche e strumenti contemporanei, la capacità di rimanere fedeli ai principi profondi della propria tradizione pur adattandosi creativamente alle condizioni mutevoli del presente

Quando osserviamo le immagini di quelle famiglie che camminano serenamente accanto alle fiamme controllate, quando leggiamo delle foreste che rinascono più ricche e diversificate dopo il passaggio del fuoco buono, quando scopriamo che i giovani ritrovano speranza e connessione partecipando a queste pratiche ancestrali, intravediamo la possibilità di una riconciliazione profonda: con gli elementi, con la terra, con le parti di noi che abbiamo imparato a temere e a sopprimere ma che potrebbero invece, se accolte e comprese, diventare alleate nel processo sempre in corso della nostra trasformazione

Il “fuoco buono” ci ricorda che la guarigione autentica non avviene mai per sottrazione ma per integrazione, non eliminando ciò che disturba ma trasformandolo in risorsa, non resistendo al cambiamento ma imparando a danzare con esso con quella grazia attenta che nasce dalla pratica paziente, dall’osservazione riverente e da quella che i nativi chiamano semplicemente camminare in bellezza sulla terra che ci sostiene e ci nutre.

Tornare a camminare con le fiamme
Avevo quindici anni quando mio padre mi portò in un bosco dove erano stati accesi “fuochi buoni”. Ricordo ancora quell’emozione che non dimenticherò mai: camminavo accanto al fuoco con meraviglia, con stupore. Niente paura, solo una gioia profonda. Io e il fuoco eravamo amici!

Da grande ho camminato anche con mio figlio, nove volte sul fuoco con la mia maestra Lucia Giovannini. Ho ritrovato quell’amore mai sopito ed è stata ogni volta un’emozione unica, aumentata dal suono dei tamburi, dal mantra del fuoco e da una notte novembrina piena di stelle. I piedi sul fuoco freddi, i piedi e l’anima pieni di calore e gratitudine

Mentre guardo le fotografie di Abbott, rivedo quella ragazza quindicenne e quella donna che camminava sulle braci con suo figlio. E capisco che quella non era solo la mia storia personale, ma l’eco di una sapienza più antica quella stessa che i Nawarddeken custodiscono e praticano da millenni

GRAZIE A LORO, GRAZIE A TUTTI

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