Fanno discutere le ricerche di due scienziati americani: la pulsione religiosa affonda le sue radici nella biologia cerebrale.
Al paziente che gli sottoponeva la relazione d’accompagnamento ai referti d’un esame un luminare della chirurgia rispose: “I radiologi si limitino a scattare le fotografie, a interpretarle ci penso io”. Il professore sprezzante dimenticava quanto fondamentale sia la diagnostica per la medicina moderna, ma era nel giusto rivendicando il proprio ruolo. Il caso nato attorno al libro di Andrew Newberg e Eugene d’Aquili appena tradotto in italiano (Dio nel cervello, Mondadori, pp.210, euro 15,80) è tutto in quell’aneddoto. Newberg è docente di radiologia (con ampio curriculum in altre discipline) all’università della Pennsylvania, d’Aquili – scomparso nel 1998 – era uno psichiatra. Insieme si sono dedicati alla ricerca delle basi neurofisiologiche dell’esperienza religiosa, un filone nato agli inizi degli anni ’90 negli Stati Uniti. È stato il loro testo divulgativo (scritto con il giornalista Vince Rause) ad accendere due inverni fa in America un ampio dibattito che è subito rimbalzato anche da noi. Viste certe interpretazioni di stampa – tutte in chiave di riduzione materialistica del sacro e della divinità -, è interessante poter ora accostare il volume in forma integrale. I due autori prendono come punto di partenza un esperimento da loro condotto (il vero cuore dell’opera): a un fervente buddhista in intensa meditazione “tibetana” viene iniettato un composto radioattivo che permette – attraverso la tomografia computerizzata a emissioni di fotoni singoli – di visualizzare con estrema precisione l’afflusso di sangue alle diverse aree del cervello. Sapendo che un accresciuta irrorazione è correlata a un aumento dell’attività cerebrale, si possono localizzare le zone interessate al “picco mistico”. La procedura è stata ripetuta su altri seguaci dello zen e un gruppo di suore francescane in preghiera. Emerge che la meditazione induce un’attivazione particolare dell’area associativa dell’attenzione, mentre all’area associativa dell’orientamento non giungono più i dati sensoriali, sicché la funzione di definizione del sé e della sue relazioni con il mondo fisico viene meno, e si ha la sensazione di trascendenza, di unità con una realtà superiore e infinita. Le punte corrispondono alle esperienze mistiche in senso proprio; i livelli intermedi sono innescati anche dalle azioni ritmiche dei riti o da situazioni e condizioni particolari. Vi è quindi una base neurale alle esperienze religiose e, probabilmente, una predisposizione innata del cervello, frutto dell’evoluzione. Fin qui la scienza sperimentale. Poi parte la spericolata ricostruzione antropologica, filosofica, teologica di Newberg: “Dio è stato scoperto durante un’esperienza mistica o spirituale che la coscienza umana ha potuto vivere grazie ai meccanismi della trascendenza inscritti nel cervello”. Seguono il mito, costruzione volta a ridurre l’ansia dell’uomo primitivo di fronte alla prospettiva della morte; il rito, azioni codificate che inducono le sensazioni della divinità; e la religione, che contribuisce in vari modi al benessere individuale e al progresso della società. Conclusione: Dio non se ne andrà (titolo originale), perché è nel cervello. L’autore però non è il materialista che sembra. Infatti oscilla tra la semplice descrizione empirica e l’ipotesi che l'”essere unitario assoluto”, un po’ new age e ben lontano dal Dio personale, esista realmente. La neuroteologia, di cui è in uscita una summa firmata da tutti i principali ricercatori (NeuroTheology, University Press, California), è una sfida affascinante che ci dice qualcosa in più sull’uomo ma che non può (ancora) pretendere di svelarne i misteri. Il libro di Newberg e d’Aquili va quindi letto con l’avvertenza data dal chirurgo. Le ingenuità sul rapporto tra mente e cervello, tra rappresentazioni e mondo esterno, alcuni erronei presupposti (l’esperienza in prima persona è vera e reale per definizione) e le semplificazioni evoluzionistiche sono da attribuire a scarso rigore e indebite letture dell’esperimento. Che mostra – e non è poco – la localizzazione fisica di alcuni eventi mentali e il meccanismo neurale correlato che “spiega” l’insorgere dell’esperienza spirituale. Correlazione è la parola chiave, poiché ogni evento mentale ha come condizione necessaria il cervello (senza saremmo semplicemente morti); resta invece aperta la questione circa il determinismo del cervello sulla mente. Né va dimenticato che la fusione mistica è solo una parte del fatto religioso. Come alla fine ammette Newberg, la scienza non può stabilire se il pensiero di Dio si riferisca a un’entità esistente oppure si a solo uno stato elettrochimico nella nostre teste. A questo proposito un piccolo biasimo va pure all’editore che, in quarta di copertina, pone due lusinghieri giudizi di monsignor Elio Sgreccia e del Nobel Rita Levi Montalcini, tratti – ahinoi – da vecchi articoli di giornale in cui gli intervistati premettevano di non aver letto il libro, né di averne mai sentito parlare precedentemente.
Fonte: La Repubblica e Le Scienze
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