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Anandamay Ma : La Grande Mistica Bengalese
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ANANDAMAY MA : la grande mistica bengalese

ANANDAMAY MA

“L’illuminata” – la grande mistica bengalese-

(Cenni sulla sua biografia in basso)

 

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“ DICE MA : Per quattro o cinque mesi questo corpo ha vissuto con pochi chicchi di riso al giorno… Il fatto è che non abbiamo bisogno di tutto ciò che mangiamo. Il corpo non assimila che la quintessenza del cibo, e rigetta il resto. Come risultato dell’ascesi, al posto del cibo, questo corpo ha preso dall’ambiente tutto ciò che gli era necessario. Può anche nutrirsi d’aria, e allora otteniamo l’essenza delle cose… e il corpo si trova in samadhi.

Vedete che con l’ascesi tutto è possibile”.

***

Alla domanda di un discepolo che chiedeva quando nel mondo non ci sarebbero state piu’ agitazioni  ne’ guerre, ANANDAMAY MA rispose:

Il Jagat (mondo) significa movimento incessante, e ovviamente non può esservi quiete nel movimento. Come potrebbe esservi pace nel perpetuo andare e venire? La pace regna dove non c’è andare né venire, né struggersi né bruciarsi. Inverti il tuo corso, vai verso di Lui (l’eterno); allora ci sarà speranza di pace.

Grazie al tuo japa – preghiera e alla tua meditazione, anche quelli che ti sono vicini trarranno giovamento dalla benefica influenza della tua presenza. Per sviluppare il gusto della meditazione devi fare uno sforzo deliberato e sostenuto, come i bambini che vanno fatti sedere a studiare sia con la persuasione sia con la forza. Un malato può guarire se prende le medicine o gli fanno delle iniezioni. Anche se non sei incline a meditare, conquista la tua riluttanza e fai una prova. L’abitudine d’innumerevoli vite ti spinge nella direzione opposta e ti rende difficile concentrarti; persevera malgrado ciò! Con la tua tenacia guadagnerai forza e sarai forgiata, vale a dire svilupperai la capacità di fare sadhana. Convinci la tua mente che, per quanto arduo, il compito va svolto. Fama e riconoscimento durano solo per poco; non t’accompagneranno quando lascerai questo mondo. Se il tuo pensiero non si volge naturalmente all’Eterno, fissacelo con uno sforzo di volontà. Qualche severo colpo del destino ti spingerà verso Dio, e sarà solo un’espressione della Sua Misericordia. Per quanto doloroso, è con questi colpi che s’impara la lezione.

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Se affermate di non avere fede, dovete esserne profonda­mente convinti. Dove c’è il ‘no’, è potenzialmente presente anche il ‘sì’. Chi può affermare di essere oltre la negazione e l’afferma­zione? Avere fede è imperativo. L’impulso naturale di avere fede in qualcosa, profonda­mente radicato nell’uomo, sfocia nella fede in Dio. Per questo la nascita umana è un dono molto grande. Non si può dire che qualcuno non abbia fede. Tutti credono sicuramente in una cosa o nell’altra.

 

La parola ‘manus’ (uomo) deriva da ‘man’ (mente) e ‘hus’ (conscio), e indica la consapevolezza e la vigilanza della mente. Ciò implica che la vocazione naturale dell’uomo è la conoscenza di Sé. Quando i bambini imparano a leggere e scrivere, devono accettare il rimprovero e la critica. Anche Dio ogni tanto dà all’uomo una dolce percossa, che è solo un segno della Sua misericordia. Dal punto di vista del mondo questi colpi sono considerati estremamente dolorosi, ma in realtà trasformano il cuore e conducono alla pace; turbando la felicità mondana, inducono l’uomo a cercare il sentiero della beatitudine suprema.

È vero che il corpo vive respirando, e che dunque c’è sofferenza.

Ci sono due tipi di pellegrini sul cammino della vita: il primo è come un turista, che desidera vedere cose interessanti, andare da un posto all’altro, passare rapidamente per gioco da un’esperienza all’altra. Il secondo percorre il sentiero che pertiene alla vera essenza dell’uomo e che porta alla sua vera dimora, alla conoscenza di Sé. Nel viaggio intrapreso per amore della curiosità e del piacere s’incontrerà certamente il dolore. La sofferenza è inevitabile finché non si ritrova la propria vera dimora. La causa originaria della sofferenza è il senso di separazione, che è fondato sull’errore, sulla concezione della dualità. Ecco perché il mondo è chiamato ‘du-niya (basato sulla dualità).

Il credo di un uomo è fortemente influenzato dal suo ambiente; per questo deve scegliere la compagnia dei santi e dei saggi. Credere significa credere nel proprio Sé, non credere è scambia­re il non-sé per il Sé.

Interlocutore: È tutto nelle mani di Dio.!?

Mataji: Esattamente! Tenetelo sempre in mente: ogni cosa è nelle mani di Dio e voi siete il Suo strumento, che Lui usa come vuole. Cercate di capire il significato di ‘tutto è Suo’, e vi sentirete subito libero da ogni peso. Quale sarà il risultato del vostro abbandono? Nessuno vi sembrerà estraneo, tutto sarà il vostro intimo Sé.

Dissolvete il senso di separazione con la devozione oppure bruciatelo con la conoscenza; cosa si dissolve o brucia? Solo ciò che per sua natura può essere dissolto o bruciato, cioè l’idea che esista qualcos’altro oltre il Sé. Che succederà allora? Conoscerete il vostro Sé.

Tutto è possibile in virtù del potere del guru; perciò cercate un guru. Nel frattempo, poiché tutti i nomi sono il Suo nome, tutte le forme le Sue forme, sceglietene una e fatene la vostra perenne compagna. Nello stesso tempo Lui è anche senza nome e senza forma; per il Supremo è possibile essere qualunque cosa e anche nulla. Finché non trovate un guru, siate devoto al nome o alla forma di Lui che più vi attrae, e pregate incessantemente che Lui vi si riveli come il Sadguru. In verità il guru è dentro, e finché non scoprite il guru interiore nulla può essere consegui­to. Se non sentite il desiderio di rivolgervi a Dio, sviluppatelo praticando una sadhana quotidiana, proprio come fanno i bambini a scuola, che devono seguire un orario stabilito.

Se la preghiera non sgorga spontaneamente dal vostro cuore, chiedetevi: “Perché trovo piacere nelle cose fugaci di questo mondo?”. Se invece desiderate intensamente cose come fama o posizione, Dio ve le concederà, ma non vi sentirete soddisfatto. Il Regno di Dio è un tutt’uno e, fino a quando non sarete ammessi alla sua totalità, non potrete essere contenti.

LEGGI TUTTO, SE VUOI:

Anandamayi Ma nacque nel villaggio di Kheora in Tipperah (Bangladesh) il 30 aprile 1896 con il nome di Nirmala Sundari Devi. I suoi genitori appartenevano alla corrente Vaishnava (veneratori di Vishnu) della religione induista, pur vivendo in una località in cui la maggioranza delle famiglie era di fede islamica.

Quando nel 1936 Paramhansa Yogananda incontrò Sri Anandamayi Ma e le chiese di dire qualcosa della sua vita, Mataji rispose: “Padre, c’è poco da dire. La mia coscienza non s’è mai associata a questo corpo transitorio. Prima di venire su questa terra… ‘ero la stessa’. Da bambina ‘ero la stessa’. Divenni donna, ma ‘ero la stessa’. Quando la famiglia predispose di far sposare questo corpo, ‘ero la stessa’. Ed ora di fronte a voi, Padre, ‘io sono la stessa’; e per sempre in futuro, nonostante la danza della creazione cambi intorno a me nello spazio dell’eternità, ‘io sarò la stessa’”.

 

Scrivere qualcosa della vita di persone come Sri Anandamayi Ma è decisamente impossibile. Quelli che si cimentano in questo tentativo corrono il rischio di narrare solo una serie di fatti esteriori, senza riuscire a cogliere l’essenza che sta oltre l’apparenza. La vita di questi grandi sfugge ad ogni tentativo di storicizzazione. Nel loro caso non è possibile applicare i comuni concetti evolutivi di nascita, crescita, sviluppo e morte, che cadono sotto il dominio dello spazio e del tempo. Secondo gli Indù, tutta la creazione spazio-temporale è il lila (gioco) di Dio. Con il termine lila si definiscono anche le vicende terrene delle incarnazioni di Dio. Mataji diceva spesso di essere una spettatrice distaccata che giocava volontariamente nell’illusorio teatro del mondo di nomi e forme; per questo ci sembra corretto parlare di ‘Lila di Sri Anandamayi Ma’.

Premesso questo, vediamo in breve quali sono stati i fatti salienti del suo lila. I suoi genitori erano dei devoti vaishnava. La madre, che si chiamava Mokshada, era il modello sublime di tutte le donne indù. Dopo la nascita della prima figlia, il padre se n’era andato per condurre vita ascetica, ma la morte improvvisa della bambina gli aveva fatto riprendere la vita di capofamiglia. Pochi anni dopo, a Kheora, un piccolo villaggio del Bengala Orientale (oggi Bangladesh), il 30 aprile 1896, dodici minuti prima che il sole si levasse, nacque loro un’altra bambina, che fu chiamata Nirmala Sundari Devi. Dopo di lei nacquero altri quattro fratelli e due sorelle.

Nirmala Sundari (che vuol dire Bellezza Immacolata) crebbe in un’atmosfera d’estrema semplicità; sempre gioiosa e sorridente, era servizievole e amica di tutti, Indù e Musulmani. Obbediva senza esitare alle parole dei grandi. La sua istruzione scolastica durò poco meno di due anni, poiché la famiglia non poteva fare a meno dei suoi servizi. La sua educazione religiosa fu scarsa, ma ben presto accompagnò il padre nelle cerimonie religiose, cantando con lui gli inni sacri. Ogni tanto aveva dei momenti di ‘assenza’: nel bel mezzo di un lavoro o di un gioco la bambina diventava inerte, con lo sguardo fisso e, quando riprendeva i sensi, sembrava tornare da molto lontano.

Altre volte la vedevano parlare con le piante e con esseri apparentemente invisibili.

 

Queste cose erano comunque piuttosto rare, e i suoi genitori non se ne preoccuparono. Nel 1909 disposero il matrimonio della figlia con il bramino R. M. Chakravarti, che in seguito sarà chiamato Bholanath (un nome di Shiva). Secondo la consuetudine, dopo la cerimonia la sposa ritornò a vivere coi propri genitori. Bholanath, che era molto più grande d’età, cambiava spesso lavoro e si spostava di continuo per tutto il Bengala Orientale; così la coppia si riunì solo dopo cinque anni. Un anno dopo la cerimonia (secondo la consuetudine del luogo), Nirmala andò a vivere con la famiglia del marito, per prepararsi ai suoi futuri doveri di moglie. Anche qui stupì tutti per la sua obbedienza, per la precisione e la rapidità con cui lavorava e soprattutto per la sua gaiezza.

La vita coniugale con Bholanath cominciò nel 1914, anno in cui lei lo raggiunse nel suo nuovo posto di lavoro. Egli pensava d’aver sposato una ragazza come tante, ma dovette presto accorgersi che il destino gli aveva riservato una compagna particolare.

Quando all’inizio cercò d’avvicinarla fisicamente, ricevette una scossa elettrica talmente forte da fargli passare ogni idea di relazione fisica. Pensò fosse solo una situazione temporanea, che la moglie fosse ancora troppo giovane, e sperò che in seguito tutto diventasse ‘normale’. Il matrimonio non fu mai consumato.

A questo riguardo, la stessa Mataji disse a Didi nel 1938, dopo la morte di Bholanath: “Nella sua mente non vi fu mai l’ombra di un pensiero mondano .

quando la notte giacevo vicino a lui, egli non faceva differenza tra me e la piccola Maroni (la nipote di sua sorella). Ricordero’ che spesso, quando la notte andavi via, mi stendevo vicino a lui quando questo corpo era in uno stato di bhava (estasi). Egli non fu mai turbato dalla coscienza del corpo… guardava e si prendeva cura di questo corpo in maniera altruistica, senza pensare a sé. Una volta o due in lui vi fu un barlume di pensiero mondano ancora così informe da non essere sul suo piano cosciente, e questo corpo manifestò tutti i sintomi della morte.

Egli si spaventò e fece japa, sapendo di poter ristabilire il contatto con me solo in quel modo”. È chiaro che le benedizioni della moglie aiutarono il marito a liberarsi di ogni desiderio terreno; il suo autocontrollo divenne eccezionale.

 

Dal punto di vista sociale il loro matrimonio appariva anomalo. La tradizione indiana vuole la moglie sottomessa al marito, che dev’essere considerato come un dio; e sebbene Mataji recitasse dapprima il ruolo della moglie obbediente, man mano che si diffondeva la fama del suo stato spirituale sorgevano nuovi problemi che turbavano la relazione tradizionale tra moglie e marito. Alla luce degli avvenimenti è chiaro che Mataji modellò impercettibilmente il marito-discepolo, finché questi non fu in grado di risolvere ogni problema. Egli deve aver sentito che la ricca messe spirituale lo ricompensava abbondantemente della mancanza di una normale vita familiare.

Durante quel periodo le estasi di Sri Ma cominciarono a manifestarsi anche al di fuori dell’intimità della loro casa; così la sua fama cominciò a diffondersi.

Nel 1916 Mataji s’ammalò gravemente e fu condotta in casa dei suoi genitori, dove rimase fino al 1918; quindi raggiunse Bholanath a Bajitpur, dove questi aveva trovato lavoro.

I sei anni che seguirono (fino al 1924) sono considerati quelli del ‘gioco della sadhana’.

Nelle sue parole: “Un giorno, a Bajitpur, andai a fare il bagno nello stagno vicino casa. Mentre mi spruzzavo l’acqua sul corpo, mi venne improvvisamente il kheyala: ‘Come sarebbe se giocassi il ruolo di una sadhika (una donna che pratica sadhana)?’. Così cominciò il lila…”. Più in là disse: “Posso dirvi che ciò che sono, lo sono stata fin dall’infanzia; ma quando in questo corpo si sono manifestate le diverse fasi della sadhana c’è stata una sovrapposizione d’ajnana (ignoranza).

 

Che tipo d’ajnana? In realtà era jnana (conoscenza) mascherata d’ajnana”. Disse anche: “In genere un velo separa l’uomo dal suo Sé, ed è quel velo che dev’essere gradualmente assottigliato con la sadhana; ma in questo caso non si è interposto alcun velo. È stato prodotto per gioco, per poi essere ritirato”.

 

Di notte la Madre sedeva in un angolo della stanza, assumeva spontaneamente asana (posizioni) complicatissimi e pronunciava vari mantra. Cantava spesso per ore, ripetendo il nome di Hari. Ciò dispiacque a Bholanath; essendo uno shakta chiese all’estatica Madre di cantare i nomi di Shiva o di Kali. Lei l’accontentò subito, consapevole dell’equivalenza di tutti i nomi di Dio.

All’inizio Sri Ma faceva sadhana solo di notte; ben presto, però, mantra e strofe sanscrite cominciarono ad uscire dalle sue labbra anche in presenza di estranei. Durante quel periodo si manifestarono diverse vibhuti (poteri soprannaturali) e fenomeni strani.

Mataji non ebbe mai un guru nel senso comune del termine. La notte della sua iniziazione (3 agosto 1922), dopo aver preparato il pasto al marito, sedette come al solito, e ad un tratto fu ispirata a svolgere nello stesso tempo il ruolo del guru e del discepolo. In un attimo le sue dita disegnarono sul terreno uno yantra; dal più profondo Sé le venne spontaneamente il bija mantra, che scrisse all’interno del segno mistico, e cominciò a ripeterlo con la realizzazione che guru, discepolo e mantra erano un’unica cosa.

Nei mesi che seguirono la sua sadhana crebbe d’intensità. Le funzioni normali del suo corpo si fermavano e solo raramente toccava cibo o sentiva il bisogno di dormire.

Nel dicembre del ‘22, contrav­venendo ad ogni convenzione, nel giorno e nell’ora stabilita, Mataji iniziò Bholanath secondo le regole delle scritture, pur senza cono­scerle. Dopo questa iniziazione ella rimase in silenzio per circa tre anni, interrompendo il mauna solo di rado per pronunciare un mantra o confortare qualcuno in grande bisogno. Nel 1924, mentre la Madre era ancora in silenzio, Bholanath perse il lavoro e si trasferì con la moglie a Dacca, dove trovò occupazione come responsabile dei giardini del nababbo. Qui, in una casetta, continuò il lila di Mataji. Le estasi divennero sempre più frequenti, al punto che il marito riteneva pericoloso lasciarla sola in casa. La sua fama si diffondeva sempre più e un numero sempre crescente di persone andava a trovarla.

Nel 1924 Bholanath e Mataji andarono a Siddheshwari, un luogo sacro nei pressi di Dacca, in cui si trovavano le rovine di un antico tempio dedicato a Kali. Da settembre in poi, accompagnata dal marito o dal padre, Sri Ma passò spesso le notti in questo tempio quasi inaccessi­bile. Nell’aprile del 1925 suggerì a Bholanath di costruirvi una tettoia. Una settimana dopo vi ritornò con numerosi discepoli e chiese che vi si celebrasse la festa di primavera in onore di Durga.

 

Qualche anno dopo Mataji acconsentì a far sorgere un ashram a Siddheshwari. Quando il silenzio di Sri Ma ebbe termine, nell’ottobre del ‘25, Bholanath permise che i devoti le parlassero liberamente. Alla fine del silenzio, Mataji cominciò un lungo digiuno: “Per quattro o cinque mesi questo corpo ha vissuto con pochi chicchi di riso al giorno… Il fatto è che non abbiamo bisogno di tutto ciò che mangiamo. Il corpo non assimila che la quintessenza del cibo, e rigetta il resto. Come risultato dell’ascesi, al posto del cibo, questo corpo ha preso dall’ambiente tutto ciò che gli era necessario. Può anche nutrirsi d’aria, e allora otteniamo l’essenza delle cose… e il corpo si trova in samadhi. Vedete che con l’ascesi tutto è possibile”.

 

Mataji perse gradualmente l’abitudine di portare il cibo alla bocca e da allora venne imboccata da altri, dapprima da Bholanath, poi principalmente da Didi. In seguito altre discepole più giovani ebbero quest’incarico.

La Madre disse: “Considero mie tutte le mani; in realtà mangio sempre con la mia mano”. Nutrire Sri Ma fu difficile. All’inizio accettava quantità insignificanti di cibo o rifiutava completamente di mangiare. Una volta si astenne da cibo e bevande per 23 giorni.

Un’altra volta non mangiava da giorni e, quando Bholanath si lamentò per la sua salute, il giorno dopo ella mangiò tutto il pane disponibile, esaurendo completamente la scorta di burro e farina della casa. Disse: “Ce ne fosse stato ancora, l’avrei mangiato. Non preparate le cose per me. Se cominciassi veramente a mangiare nessuno di voi, per quanto ricco, sarebbe in grado di provvedere a me”. Mataji era contraria all’accumulo delle scorte alimentari. Una volta, in casa di un devoto di Calcutta, saputo di un certo quantitativo di cibo riposto, andò nel magazzino e fece distribuire quanto vi era alle famiglie del vicinato.

La prima apparizione pubblica di Sri Ma avvenne in occasione del Kalipuja del 1925, che ella accettò di condurre con riluttanza. Durante la cerimonia pose sulla propria testa i fiori e la pasta di sandalo che dovevano essere posti sulla statua di Kali. In lei si produsse un cambiamento, la sua carnagione si scurì, i suoi occhi s’ingrandirono a dismisura, e tutti i presenti la videro con i tratti di Kali. Permise il sacrificio di una capra, secondo la tradizione, ma fece intendere che nei Kalipuja ai quali avrebbe partecipato non voleva che si sacrificassero animali. Spiegò che il vero significato del sacrificio animale è quello di sacrificare la propria natura inferiore o animale, vivendo in maniera tale da innalzarsi alla vera natura divina dell’uomo.

Nell’ottobre del ‘26 le chiesero di nuovo di celebrare il Kalipuja. Ancora una volta ella deviò dal rituale tradizionale; nel momento dell’offerta del sacrificio (che non permise), suggerì di conservare il fuoco sacrificale per un mahayajna (sacrificio in favore di tutti gli esseri).

Quel fuoco si conserva ancora negli ashram di Benares, Dehradun e Naimisharanya. Secondo la consuetudine, alla fine di un puja la statua della dea viene immersa nell’acqua. Su richiesta di una devota, la Madre diede istruzioni affinché la statua di Kali fosse conservata; in seguito fu installata nell’ashram di Ramna. Nel corso di quelle ed altre cerimonie, Mataji si trasformava e appariva nei tratti gloriosi di Durga o in quelli terrificanti di KaIi. Il giorno dell’anniversario di Krishna apparve come lo stesso Krishna. I suoi tratti si trasformavano completamente.

Su consiglio della Madre, nel giardino del nababbo si organizzarono kirtan e cerimonie religiose, senza incontrare opposizione da parte dei Musulmani. Mataji si meritò il rispetto e la stima della famiglia del nababbo e della comunità musulmana.

Manifestò spesso e apertamente la sua reverenza per l’Islam. La Madre si considerava nello stesso tempo cristiana, musulmana, indù, “tutto quello che volete”; ma la maggior parte dei suoi devoti era indù. Tra il ‘25 e il ‘26 arrivarono alcuni tra i suoi più grandi devoti: Gurupriya Devi, chiamata Didi (sorella), che s’oppose al piano dei genitori che volevano sposarla, e che Sri Ma accolse con le parole: “Dove sei stata tutto questo tempo?”, come si trattasse di una vecchia conoscenza. Didi divenne la persona più vicina a Sri Ma; dapprima l’aiutò ad assolvere i doveri di casa e poi a dirigere i vari ashram che le si crearono intorno. A lei dobbiamo la registrazione più completa del Lila di Mataji. Un altro grande devoto fu Bhaiji (fratello maggiore), che nel suo magnifico libro ‘Matri Darshan ci ha lasciato una preziosa testimonianza degli anni trascorsi con la Madre.

 

Fu in questo periodo (1926) che la gente cominciò ad andare regolarmente da Anandamayi Ma, aspettandosi la guarigione dei mali fisici. Ella fece però capire che avrebbe curato solo quando era portata a farlo, secondo il suo kheyala. I miracoli si moltiplicarono. Di questo periodo Mataji disse: “Avevo il kheyala d’essere come un sadhaka; era dunque naturale che si manifestassero spontaneamente le caratteristiche proprie di un’intensa ascesi. Il vero sadhaka non attribuisce alcuna importanza ai poteri che si sviluppano in lui, e non ne fa un uso deliberato; tuttavia le persone possono trarre grande profitto dall’abbondanza che straripa dal suo sforzo cosciente”.

La vita di Mataji ritornò gradualmente ‘normale’, e i fenomeni strani scomparvero quasi del tutto. Alla fine del 1926 il ‘gioco della sadhana era terminato. Fu allora che la Madre Permeata di Gioia abbandonò la vita stabile e cominciò a viaggiare incessantemente per tutta l’India del centro-nord. All’inizio del 1927 Sri Ma e il suo seguito visitarono Rishikesh e Hardwar. Mentre erano in quest’ultima città, ordinò a Didi e al padre di questa di rimanervi tre mesi e praticare tapas in solitudine.

Prima di tornare a Dacca, Sri Ma si fermò a Mathura, Vrindaban e Benares. In aprile, in occasione del trentunesimo compleanno della Madre, Bhaiji suggerì che in suo onore si facessero puja e kirtan. Ogni anno, da allora, si celebra il compleanno di Mataji, con festeggiamenti che durano più di una settimana e ai quali partecipano grandi folle di devoti. Ci si potrebbe chiedere perché Mataji abbia permesso queste celebrazioni. Nel 1956, in occasione del suo sessantesimo compleanno, un devoto le chiese quale fosse il significato di quella festa. Rispose dicendo che era vero che lei non era mai nata, ma era stato così anche per il Signore Krishna, eppure si celebrava la Sua nascita. Queste feste, di carattere unicamente religioso, servono a focalizzare l’attenzione della gente sul Divino, per accrescerne la devozione e la recettività spirituale. A Bhaiji si deve anche il fatto di aver incluso come parte integrante dei kirtan i canti devozionali rivolti a Sri Ma.

All’inizio del 1928 Bholanath perse il posto di lavoro. Nel settembre dello stesso anno, durante una visita a Benares, Mataji incontrò M. Gopinath Kaviraj, uno dei più grandi studiosi di sanscrito, che divenne uno dei suoi più ardenti devoti e che pubblicò molti libri su di lei. A Benares le folle si accalcavano per avere il darshan di Sri Ma. Ciò che era rimasto della sua vita ‘privata’ venne sostituito dai suoi doveri verso coloro che cercavano in lei un rifugio spirituale. Bholanath dovette adattarsi ad una vita che aveva poco o nulla della normale esistenza familiare. Nel dicembre del 1928 Mataji vide che era venuto il tempo d’intensificare la sadhana di Bholanath, e così gli disse di andare a praticare la meditazione solitaria a Tarapith, un luogo sacro caro agli asceti.

Quando i devoti vollero celebrare il compleanno di Sri Ma del 1929, s’accorsero che l’ashram di Siddheswari non bastava più a contenere tutti. Le celebrazioni si svolsero dunque nell’ashram appena completato di Ramna, a Dacca. Al termine della festa, Sri Anandamayi Ma annunciò la risoluzione di lasciare Dacca quella stessa notte. Chiese a Bholanath il permesso di partire, con la premessa che se avesse rifiutato Ella avrebbe lasciato immediatamente il corpo. Il pellegrinaggio la portò nell’Himalaya, ad Ayodhya e a Benares. Dopo il ritorno a Dacca non fu più in grado di tenere in mano gli utensili da cucina, e dovette abbandonare tutti i lavori di casa. Bholanath protestò e cadde malato. Nelle parole di Mataji: “Per alcuni giorni provai a cucinare con l’aiuto di mia madre… non avevo obiezioni e per me non faceva differenza… ma pochi giorni dopo Bholanath cadde malato e m’ammalai anch’io. Così, dopotutto, non s’arrivò a niente”. Il lila familiare era evidentemente terminato.

Il primo incontro di Sri Ma con la comunità accademica, convenuta a Dacca per un congresso di filosofia indiana, risale a quel periodo. Gli studiosi andarono a trovarla e l’interrogarono per ore sulle questioni più profonde e difficili. Ella rispose spontaneamente, con serenità e precisione, libera da ogni pastoia metafisica.

Il numero dei devoti crebbe sempre più. Seguì un periodo di viaggi apparentemen­te a caso per tutta l’India del Nord. Nell’agosto del 1930 Sri Ma, insieme a Bholanath, intraprese il suo primo viaggio nell’India del Sud, fino a Capo Comorin.

Nel 1932, dopo le celebrazioni per il suo compleanno, la Madre manifestò l’intenzione di lasciare Dacca per sempre. A tarda notte fece chiamare Bhaiji, che con Bholanath fu l’unico ad accompagnarla e, senza portare quasi niente, i tre partirono e andarono nell’Hima­laya. Dal 1932 ad oggi il lila della Madre Permeata di Gioia è stato un interminabile susseguirsi di feste religiose, puja, kirtan e satsanga. Tutti vorrebbero che Sri Ma santificasse la loro casa con la sua presenza. A Calcutta i devoti sono innumerevoli.

La Madre continua a muoversi per l’India del Nord circondata dai discepoli più intimi e attesa sempre da migliaia di devoti che sperano di beneficiare della sua presenza. Ovunque vada, la concentrazione è sempre rivolta al Divino. Mataji invita continuamente l’uma­nità a risvegliarsi dal sonno dell’ignoranza alla realizzazione dell’Uno.

Bhaiji, uno dei suoi devoti più intimi, morì ad Almora nel 1937, poco dopo aver preso sannyasa dalla Madre. Bholanath morì di vaiolo nel 1938. L’anno successivo la madre di Sri Ma, Didima, prese sannyasa col nome di Swami Muktananda Giri e servì al fianco della figlia fino alla morte (1970). Didi Gurupriya Devi, la grande compagna della Madre, ha lasciato il corpo nel 1981.

Visto il grande numero di devoti in tutta l’India (come pure in Europa e in America) e il formarsi di più di venti ashram intorno alla Madre, nel 1950 fu stabilita a Benares la Sri Sri Anandamayi Sangha. La Madre non è in alcun modo coinvolta nell’amministrazione o nel controllo del sangha; l’unica cosa di cui è personalmente responsabile è l’annuale Samyam Vrata, iniziato nel 1952. Si tratta di una settimana di ritiro, nel corso della quale si pratica un’intensa disciplina spirituale sotto la guida diretta di Sri Ma.

Sollecitando l’uomo a rinunciare al mondo almeno per una settimana, Sri Anandamayi Ma gli chiede di praticare almeno per pochi giorni quella rinuncia che è il suo modo di vivere da più di mezzo secolo.

A quelli che si rattristano nel vederla partire continuamente, la Madre Permeata di Gioia risponde: “Io non vado da nessuna parte, sono sempre qui. Non c’è andare né venire; tutto è Atman”.

 

Dice ancora: “Ovunque siate, sono sempre con ciascuno di voi; ma vi lasciate prendere dalle cose materiali e non vi resta molto tempo per rivolgere i vostri pensieri e le vostre azioni verso questo corpo. Che ci posso fare? Ma sappiate che qualunque cosa diciate o facciate, che mi siate vicini o lontani, nulla mi sfugge. Come la vostra figura può uscire subito dall’ombra accendendo una luce, così m’appaiono tutte le espressioni del vostro viso allorché meditate su di me, parlate di me o m’invocate”.

 

Sri Sri Anandamayi Ma è entrata in mahasamadhi (l’uscita finale dal corpo di uno yogi o yogini) nell’estate del 1982.

Risposte DI ANANDAMAY MA:

 

Questo libro contiene una selezione di risposte date da Sri Anandamayi Ma a domande che furono poste, e registrate, durante incontri con grandi o piccoli gruppi di persone. Le risposte non sono state disposte in ordine cronologico ma, per quanto possibile, secondo argomenti. Le questioni più semplici sono state poste all’inizio. Gli argomenti trattati riguardano la meditazione, il sentiero spirituale, la realizzazione del Sé e tutta una serie di problemi d’ordine pratico, filosofico e metafisico che incontrano i ricercatori della verità nelle varie fasi della ricerca. Mataji risponde esattamente secondo le capacità di comprensione dell’interlocutore, la sua particolare disposizione e la sua linea d’approccio, illuminando ogni singola questione da punti di vista differenti.

Di fatto nelle sue risposte troviamo uniti ogni credo e filosofia, ogni scuola di pensiero e metodo yoga; tuttavia lei rimane al di sopra e al di là di tutto. Di lei è stato detto che aveva la parola giusta, al momento giusto e nella maniera giusta per ogni ricercatore spirituale, sia che fosse un credente o un agnostico, un intellettuale, uno studioso, un analfabeta, un novizio o un ricercatore molto avanzato sul sentiero. Come la terra dà ad ogni pianta le sostanze necessarie alla sua crescita, così Sri Anandamayi Ma guidava ogni aspirante secondo le sue specifiche necessità del particolare momento. Le sue risposte non venivano dalla mente. Ella affermò spesso in maniera inequivocabile di non parlare ad un ‘altro’. Per lei tutto era l’Unico Essere Supremo che si manifestava nella diversità infinita rimanendo, nello stesso tempo, al di là di ogni espressione e limitazione, senza forma, immutabile e inconcepibile. In Quello non c’è possibilità di distinzioni, che pure esistono al nostro livello. Le domande sono poste dal punto di vista dell’individuo, ma la vera risposta sta oltre l’ego-mente, dove non esiste separazione né divergenza d’opinioni.

Colui che registrò i dialoghi, Brahmachari Virajananda, conosciuto da tutti i devoti e visitatori dell’ashram di Sri Anandamayi come ‘Kamalda’, incontrò per la prima volta Mataji a Dacca, nel 1926, e da allora le rimase vicino. Nel 1942 entrò a far parte dell’ashram, divenendone uno dei più devoti e importanti collabo­ratori. Dotato di un’intelligenza acuta e di una grande sete di conoscenza, ebbe l’intenso desiderio di registrare le esatte parole di Mataji, convinto che sgorgavano spontaneamente da profondità alle quali i comuni esseri umani non hanno accesso. Per il proprio studio e la propria illuminazione, ogni volta che ne ebbe l’oppor­tunità cominciò ad annotare le parole di Mataji così come le sentiva pronunciare.

 

Nonostante i suoi numerosi doveri come cosegretario dello Sri Sri Anandamayi Sangha, come amministratore dell’ashram di Benares, ecc., non appena veniva a sapere che Mataji stava rispondendo a delle domande, lasciava subito il lavoro che aveva sotto mano e si precipitava dove si svolgeva la discussio­ne. Nella quiete della notte trascriveva in bella copia le registrazioni, ponderando sul significato profondo di quanto aveva udito e scritto. Le prime luci dell’alba gli ricordavano spesso d’avere trascorso la maggior parte della notte in questo tipo di medita­zione.

Nello zelo di preservare le affermazioni di Mataji nella loro purezza originaria e con la più grande precisione possibile, egli sviluppò presto una tecnica tutta sua. Poteva aver perso una parola qui o là, ma non perdeva mai il filo di ciò che veniva detto. Se per qualche motivo gli era impossibile registrare parte della conversa­zione, sentiva la cosa come una dolorosa perdita personale. In molte occasioni del genere, però, con sua grande gioia sentiva in seguito Mataji spiegare lo stesso punto a qualcun altro, e delucidare la parte della conversazione che gli era sfuggita. Non solo Virajananda, ma anche molti altri che erano a contatto con Mataji ricevevano la risposta ancor prima di porre la domanda.

 

A volte Mataji diceva di sé: “Questo corpo è come uno strumento musicale; ciò che sentite dipende da come lo suonate. La cosa meravigliosa è che rispondeva anche ai tocchi silenziosi! Ecco un esempio impressionante: una notte, a Puri, ci fu una conversazione in riva al mare. Con vivo disappunto, poiché non c’era luce, Virajananda non fu in grado di scrivere. Poco tempo dopo, però, sentì Mataji rispiegare l’intero argomento praticamente con le stesse parole, e allora poté annotarlo per intero. È uno dei discorsi più ispiranti (il XXV° di questa raccolta), che probabilmente dà un’idea più completa di qualunque altro dell’universalità di Mataji.

 

I diari di Brahmachari Virajananda comprendono parecchi volumi. Quando, nel 1953, egli ne mostrò uno al dr. Gopinath Kaviraj, quel grande sapiente fu profondamente colpito dal suo contenuto. Egli suggerì di pubblicare estratti di quei diari su Ananda Varta (il giornale trimestrale dello Sri Sri Anandamayi Sangha) e propose di scrivere per essi dei commenti. Lui stesso scelse le conversazioni da pubblicare, che apparvero su Ananda Varta dal maggio 1953 all’agosto 1958 sotto il titolo ‘Mataj’s Amara Vani’, sia nell’originale bengali sia nelle traduzioni in hindi e in inglese. Questo volume ripresenta la versione accuratamente rivista della traduzione inglese della maggior parte di quelle conversazioni.

Mataji parla di ciò che è oltre l’esperienza dell’individuo comune e che, tutt’al più, può essere solo accennato con le parole. Non sorprende dunque che il suo linguaggio non sia conforme né al bengali letterario né a quello parlato. Ella ha dato un significato nuovo a molte espressioni comuni e, a volte, ha coniato parole nuove con un’etimologia tutta sua. Il suo linguaggio è originale e pertinente, intensamente vivo ed espressivo, è spesso sintetico e incisivo, privo di ogni parola superflua. In certi casi, quando esprime delle verità profonde, il suo linguaggio diviene ermetico.

La differenza tra la lingua bengali e quella inglese è ben nota. In inglese non esistono parole adeguate per molti termini bengali. In alcuni casi è stato necessario tradurre due o tre parole bengali con un’intera frase o proposizione. Non si è tralasciato alcuno sforzo per tradurre il più precisamente possibile ogni espressione così com’è stata registrata. Nello stesso tempo, il traduttore ha cercato di preservare, per quanto possibile, il significato esatto delle parole insieme al loro ritmo, alla loro bellezza, al loro carico d’ispirazione, all’immacolata e intangibile qualità che pervade ogni espressione di Mataji – le sue parole, i suoi canti, i suoi gesti e il suo sorriso.

Se nonostante i nostri sforzi non siamo riusciti a rendere questa traduzione perfetta come avrebbe dovuto, ci sia permesso citare le stesse parole di Mataji:

Sforzatevi al limite del vostro potere, per quanto piccolo possa essere. C’è Lui a comple­tare ciò che è stato tralasciato di fare”.

Preghiamo Mataji di accettare benevolmente quest’umile offer­ta posta ai suoi sacri piedi. Possano le sue parole illuminare il nostro sentiero!

 

PAROLE DI MA:

Chi è un vaishnava? Chi vede Vishnu ovunque. E uno shakta? Chi vede solo la Grande Madre e nient’altro che Lei. In verità tutte le diverse forme di pensiero hanno origine da una sorgente comune. Allora, chi dev’essere biasimato, chi dev’esse­re insultato o distrutto? Tutti sono uguali nell’essenza.

 

Tu sei la Madre, Tu sei il Padre,

Tu sei l’Amico e il Maestro,

Invero, Tu sei tutto in tutti.

Ogni nome è il Tuo Nome,

Ogni qualità è una Tua Qualità,

Ogni forma è davvero la Tua Forma.

 

Come puro Essere non manifesto, Egli è anche dove non esistono forme. Dipende tutto dalla propria linea d’approccio.

 

Domanda: Quando ci sarà pace sulla terra?

 

Mataji: Sai qual è lo stato attuale delle cose; le cose vanno come sono destinate ad andare.

 

Domanda: Quando cesserà questo stato d’agitazione?

Mataji: Anche il fatto che molti di voi siano preoccupati e chiedano: “Quando finirà?”, è uno dei Suoi modi di manifestarSi.

Jagat (mondo) significa movimento incessante, e ovviamente non può esservi quiete nel movimento. Come potrebbe esservi pace nel perpetuo andare e venire? La pace regna dove non c’è andare né venire, né struggersi né bruciarsi. Inverti il tuo corso, vai verso di Lui; allora ci sarà speranza di pace.

Grazie al tuo japa e alla tua meditazione, anche quelli che ti sono vicini trarranno giovamento dalla benefica influenza della tua presenza. Per sviluppare il gusto della meditazione devi fare uno sforzo deliberato e sostenuto, come i bambini che vanno fatti sedere a studiare sia con la persuasione sia con la forza. Un malato può guarire se prende le medicine o gli fanno delle iniezioni. Anche se non sei incline a meditare, conquista la tua riluttanza e fai una prova. L’abitudine d’innumerevoli vite ti spinge nella direzione opposta e ti rende difficile concentrarti; persevera malgrado ciò! Con la tua tenacia guadagnerai forza e sarai forgiata, vale a dire svilupperai la capacità di fare sadhana. Convinci la tua mente che, per quanto arduo, il compito va svolto. Fama e riconoscimento durano solo per poco; non t’accompagneranno quando lascerai questo mondo. Se il tuo pensiero non si volge naturalmente all’Eterno, fissacelo con uno sforzo di volontà. Qualche severo colpo del destino ti spingerà verso Dio, e sarà solo un’espressione della Sua Misericordia. Per quanto doloroso, è con questi colpi che s’impara la lezione.

L’ostinazione della mente va vinta con fermezza. Che la mente collabori o meno, devi essere irremovibile nella determinazione di compiere senza fallo un certo numero di pratiche – semplicemente perché la sadhana è il vero lavoro dell’uomo. A lungo sei stata abituata a compiere azioni che incatenano; per questo sei continuamente spinta a legarti all’attività dalla forza delle abitudini. Se farai per qualche tempo un serio sforzo, potrai vedere da sola quanto sei presa dal tuo lavoro, e più t’impegnerai nella sadhana più veloce sarà il tuo progresso.

Per quanto riguarda l’abbandono di sé: sforzandosi di vivere costantemente una vita di dedizione, un giorno accadrà. Che significa abbandono, se non abbandonarsi al proprio Sé? Ricorda ciò che questa tua piccola figlia** ti chiede di fare!

 

Se affermate di non avere fede, dovete esserne profonda­mente convinti. Dove c’è il ‘no’, è potenzialmente presente anche il ‘sì’. Chi può affermare di essere oltre la negazione e l’afferma­zione? Avere fede è imperativo. L’impulso naturale di avere fede in qualcosa, profonda­mente radicato nell’uomo, sfocia nella fede in Dio. Per questo la nascita umana è un dono molto grande. Non si può dire che qualcuno non abbia fede. Tutti credono sicuramente in una cosa o nell’altra.

La parola ‘manus’ (uomo) deriva da ‘man’ (mente) e ‘hus’ (conscio), e indica la consapevolezza e la vigilanza della mente. Ciò implica che la vocazione naturale dell’uomo è la conoscenza di Sé. Quando i bambini imparano a leggere e scrivere, devono accettare il rimprovero e la critica. Anche Dio ogni tanto dà all’uomo una dolce percossa, che è solo un segno della Sua misericordia. Dal punto di vista del mondo questi colpi sono considerati estremamente dolorosi, ma in realtà trasformano il cuore e conducono alla pace; turbando la felicità mondana, inducono l’uomo a cercare il sentiero della beatitudine suprema.

È vero che il corpo vive respirando, e che dunque c’è sofferenza.*

Ci sono due tipi di pellegrini sul cammino della vita: il primo è come un turista, che desidera vedere cose interessanti, andare da un posto all’altro, passare rapidamente per gioco da un’esperienza all’altra. Il secondo percorre il sentiero che pertiene alla vera essenza dell’uomo e che porta alla sua vera dimora, alla conoscenza di Sé. Nel viaggio intrapreso per amore della curiosità e del piacere s’incontrerà certamente il dolore. La sofferenza è inevitabile finché non si ritrova la propria vera dimora. La causa originaria della sofferenza è il senso di separazione, che è fondato sull’errore, sulla concezione della dualità. Ecco perché il mondo è chiamato ‘du-niya (basato sulla dualità).

Il credo di un uomo è fortemente influenzato dal suo ambiente; per questo deve scegliere la compagnia dei santi e dei saggi. Credere significa credere nel proprio Sé, non credere è scambia­re il non-sé per il Sé.

Ci sono esempi di realizzazione avvenuti per grazia di Dio; altre volte si può constatare che Egli risveglia nell’individuo un ardente desiderio di verità. Nel primo caso la realizzazione avviene spontaneamente, nel secondo è causata dalle tribolazioni; ma tutto è opera soltanto della Sua misericordia.

L’uomo pensa di essere l’autore delle sue azioni, ma in effetti ogni cosa viene diretta da ‘Lì’; si è collegati ‘Lì’ come ad una centrale elettrica, tuttavia l’uomo dice: ‘Io faccio’. È meraviglioso! Quando malgrado ogni sforzo non si riesce a prendere il treno, questo fatto non mostra chiaramente da dove sono diretti tutti i nostri movimenti?

 

Qualunque cosa accada ad ognuno, ovunque e in qualsiasi momento, è stabilito da Lui; i Suoi piani sono perfetti. Tra Dio e l’uomo esiste un legame eterno; ma nel Suo Gioco questo legame a volte c’è e altre volte è tagliato o, piuttosto, appare tagliato. In realtà non è così, perché il legame è eterno. Osservato da un altro punto di vista, non c’è alcun legame. Un uomo che venne a trovare questo corpo disse: “Sono per voi un nuovo venuto”; ed ebbe la risposta: “Davvero sempre nuovo e sempre vecchio!”.

La luce del mondo viene e va, è instabile. La Luce eterna non può mai estinguersi: vedete la luce esterna e tutte le altre cose dell’universo mediante questa Luce; potete percepire la luce esterna solo perché essa splende sempre dentro di voi. Potete vedere ogni cosa nell’universo solo grazie alla grande Luce che è in voi; potete acquisire conoscenze di qualsiasi tipo solo perché la Conoscenza Suprema dell’essenza delle cose giace nascosta nelle profondità del vostro essere.

Il cervello umano può essere paragonato alla radice di un albero; se si annaffia la radice, il nutrimento giunge ad ogni parte della pianta. A volte dite che il vostro cervello è stanco. Quando succede? Quando siete troppo presi dalle cose esterne; ma non appena tornate a casa e parlate con i vostri cari, la vostra testa diventa più leggera e vi mostrate pieni di gioia. Per questo si dice che poiché il cervello vi appartiene, il lavoro che fate non può stancarvi. In effetti, ogni lavoro è il vostro lavoro; ma come potete comprenderlo? In verità il mondo intero è vostro, del vostro Sé; ma voi lo percepite separato, così come vedete gli ‘altri’. Sapere che è vostro dà felicità, l’idea che è separato da voi causa sofferenza. Percepire la dualità significa dolore, conflitto, lotta e morte. Pitaji,* praticate qualche tipo di sadhana!

Interlocutore: È tutto nelle mani di Dio.

Mataji: Esattamente! Tenetelo sempre in mente: ogni cosa è nelle mani di Dio e voi siete il Suo strumento, che Lui usa come vuole. Cercate di capire il significato di ‘tutto è Suo’, e vi sentirete subito libero da ogni peso. Quale sarà il risultato del vostro abbandono? Nessuno vi sembrerà estraneo, tutto sarà il vostro intimo Sé.

Dissolvete il senso di separazione con la devozione oppure bruciatelo con la conoscenza; cosa si dissolve o brucia? Solo ciò che per sua natura può essere dissolto o bruciato, cioè l’idea che esista qualcos’altro oltre il Sé. Che succederà allora? Conoscerete il vostro Sé.

Tutto è possibile in virtù del potere del guru; perciò cercate un guru. Nel frattempo, poiché tutti i nomi sono il Suo nome, tutte le forme le Sue forme, sceglietene una e fatene la vostra perenne compagna. Nello stesso tempo Lui è anche senza nome e senza forma; per il Supremo è possibile essere qualunque cosa e anche nulla. Finché non trovate un guru, siate devoto al nome o alla forma di Lui che più vi attrae, e pregate incessantemente che Lui vi si riveli come il Sadguru. In verità il guru è dentro, e finché non scoprite il guru interiore nulla può essere consegui­to. Se non sentite il desiderio di rivolgervi a Dio, sviluppatelo praticando una sadhana quotidiana, proprio come fanno i bambini a scuola, che devono seguire un orario stabilito.

Se la preghiera non sgorga spontaneamente dal vostro cuore, chiedetevi: “Perché trovo piacere nelle cose fugaci di questo mondo?”. Se desiderate ardentemente una cosa esterna o vi sentite particolarmente attratti da una persona, fermatevi e dite a voi stesso: “Guarda, stai per essere incantato dal suo fascino!”. Esiste un luogo in cui non vi sia Dio? La vita di famiglia, l’ashrama del capofamiglia, può condurvi ugualmente nella Sua direzione, a condizione che l’accettiate come ashrama. Vissuta in questo spirito, aiuta l’uomo ad avvicinarsi alla realizzazione del Sé.

Se invece desiderate intensamente cose come fama o posizione, Dio ve le concederà, ma non vi sentirete soddisfatto. Il Regno di Dio è un tutt’uno e, fino a quando non sarete ammessi alla sua totalità, non potrete essere contento.

Egli vi concede giusto un minimo, solo per tenere vivo il vostro malcontento, poiché senza malcontento non può esservi progresso. Voi, che siete discendenti dell’Immortale, non potrete mai rassegnarvi al regno della morte, né Dio vi permetterà di restarci. Lui stesso suscita in voi un senso d’incompletezza concedendovi una piccola cosa solo per stimolare il vostro desiderio di qualcosa di più grande. È così che Lui vi spinge avanti. Il viandante trova difficile questo sentiero e si sente turbato, ma chi ha occhi per vedere percepisce chiaramente che il pellegrino avanza. Il dolore che si prova riduce in cenere il piacere che deriva dalle cose del mondo. Questo è ciò che si chiama tapasya. Quel che ostacola il sentiero spirituale porta con sé i semi della sofferenza futura; ma l’angoscia e l’intenso dolore che deriva da queste ostruzioni sono l’inizio di un risveglio alla Coscienza.

 

 

– La vita umana, e quella animale in generale, dipende dal respiro, che è un elemento di disturbo nell’equilibrio universale. L’intera creazione è caratterizzata da questo ‘disturbo’. Il processo del respiro implica un duplice movimento, verso l’interno e verso l’esterno, e una pausa regolare tra i due. Lo stato d’armonia si può raggiungere liberandosi dallo stimolo al movimento, pervenendo al riposo, alla calma e alla pace; ciò è possibile mediante lo yoga. Quando si è in uno stato di perfetto equilibrio, non ci sara’ piu’  bisogno di respirare…..continua……

 

http://www.anandama yi. org/ashram/italian/Introbio.htm

 

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