Reiki, Johrei, tocco terapeutico, Qigong esterno e tantissime altre discipline vengono tradotte in Occidente come ‘Terapie del biocampo’.
Ora un’importante università americana prova a fare chiarezza. E’ con questo termine che la cultura scientifica traduce queste pratiche millenarie. Che cosa dicono?
L’Università di San Diego, California, riassume i risultati delle ricerche e detta i futuri passi per evidenziare meglio i benefici di questi trattamenti. «Pratiche di guarigione intese a modulare le ‘energie sottili’ del corpo esistono da migliaia di anni in molte culture», scrivono. «A questa famiglia di pratiche ci si riferisce con il termine ‘Biofield therapies’, un termine coniato dagli US National Institutes of Health nel 1992».
Come la vedono? «Definiamo queste terapie come trattamenti non-invasivi che esplicitamente lavorano sul ‘biocampo’ sia dell’operatore sia del ricevente per stimolare una risposta di guarigione».
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Ma che cos’è esattamente il ‘biocampo’? «E’ un campo privo di massa, non necessariamente elettromagnetico, che circonda e permea i corpi viventi e li influenza».
Un dialogo difficile. Ovviamente, si può discutere e anche essere in totale disaccordo con questo inquadramento ma pensiamo anche che, in fin dei conti, si cerca di mediare tra culture profondamente diverse. Passiamo dai laboratori e dalla statistica a nozioni tradizionali come i chakra o l’aura.
Intanto, secondo questi Autori di formazione scientifica, vale la pena sensibilizzare gli operatori sanitari e il pubblico sulla ‘teoria del biocampo’ e sulle ricerche che si stanno svolgendo. Non chiudere la porta come al solito, insomma.
Può esserci spazio per questi trattamenti: loro li vedono non alternativi ma complementari alla medicina convenzionale.
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Perché, a ben vedere, quei pochi studi che sono stati condotti dei risultati li avrebbero anche portati. Per esempio sul dolore.
Ad ora sono stati condotti 30 studi clinici che illustrano gli effetti sul dolore delle terapie del biocampo:
pazienti con dolore cronico, artriti e restrizioni nei movimenti. I ricercatori che hanno provato a compattare i dati rilevano una forte evidenza nel ridurre l’intensità del dolore.
Persino il rigoroso gruppo Cochrane – un po’ lo spauracchio di tutti quelli che si occupano di ricerca medica, convenzionale e non – rileva che alcuni studi sul biocampo evidenziano dei benefici sul dolore (in quel caso parlavano del Reiki).
Così scrivono i ricercatori californiani, ma va precisato che la Cochrane review diceva anche che, ad ora, non si possono trarre conclusioni (del resto, dicono così quasi sempre… con le loro ragioni aprono una discussione, arrivano a oggettive rilevanze ma non vogliono poi “metterle per iscritto”).
Qual è il problema? Perché non si può dire? E’ una questione di metodo scientifico. Di fatto, manca per l’attuale cultura medica un retroterra teorico che spieghi questi effetti: il tutto viene visto come una faccenda troppo esoterica e non fa bene per le carriere accademiche.
Però qualcosa si muove. Gli standard per dimostrare l’effetto terapeutico sono sempre più raffinati e richiedono notevoli risorse economiche per portarli avanti: negli Stati Uniti, tuttavia, le ricerche sul biocampo sono state incluse in un programma di ricerca che prevede finanziamenti federali.
Persino il ricco Dipartimento della Difesa – tra un nuovo drone e l’altro – appare interessato. Occorre più ricerca (e più soldi) per rendere possibile l’indagine.
Impresa non facile anche perché in questo caso non abbiamo molecole o strumenti che si possano brevettare e gli investitori sono assai freddi.
Comunque, vi passiamo questo articolo a favore delle tecniche sul biocampo e tra le firme ci sono importanti università: non solo San Diego ma anche l’Anderson Cancer Center di Houston, tra i centri oncologici più prestigiosi al mondo.
Potete leggere il testo completo (in inglese) a questo link:
http://www.gahmj.com/doi/full/10.7453/gahmj.2015.034.suppl
Bibliografia:
Shamini J et al. Clinical Studies of Biofield Therapies: Summary, Methodological Challenges, and Recommendations. Glob Adv Health Med. 2015 Nov; 4(Suppl): 58–66.
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