Dossier dedicato alla Cannabis
In Italia la Cannabis fa parte, con i suoi estratti e principi attivi, delle sostanze inserite dall’agenzia del farmaco, insieme a cocaina ed eroina, nella Tabella 1, in quanto dotata di proprietà assuefacenti, ma all’estero già da tempo e in Italia da un paio di anni, a partire dalla regione Toscana, la cosiddetta Cannabis terapeutica può essere erogata dal sistema sanitario nazionale come presidio terapeutico compassionevole per alcune patologie come il cancro terminale, la sclerosi multipla, l’AIDS e anche l’anoressia.
Per alcuni la Cannabis è una sostanza pericolosa, anticamera dell’abuso di droghe più pesanti, per altri invece è una sostanza efficace per rilassarsi e dormire meglio. Inutile per un medico nascondersi dietro un dito e limitarsi a dire ai propri pazienti di non utilizzarla, ben sapendo che in realtà ancor più che gli adolescenti, che ne fanno un uso spesso di tipo ricreazionale, fumando lo spinello in gruppo, molti adulti proseguono con un utilizzo cronico di Cannabis, al proprio domicilio, per dormire o rilassarsi la sera.
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Cosa dire a queste persone in qualità di medico psichiatra? Niente che provenga dal pregiudizio, niente che sia un luogo comune. Piuttosto invece dire la verità, che in termini scientifici non è mai una verità assoluta, ma al contrario è molto umilmente rappresentata soltanto da ciò che finora le ricerche più serie e accreditate hanno potuto dire sui reali effetti acuti e cronici dell’uso di Cannabis, e sugli eventuali rischi associati alla sua assunzione.
Le diverse posizioni in merito alla liberalizzazione delle cosiddette droghe leggere, ovvero i derivati della canapa indiana (marijuana e hashish), non sono solo terreno di scontro politico e sociale, perché appunto proprietà, rischi e virtù sono oggetto di studio scientifico e medico. Se i cannabinoidi possono produrre perdita di memoria, senso di paura, alterazioni della percezione, ma anche rilassamento e senso di benessere, così come ebbrezza, espansività, allucinazioni e servono però anche a tollerare meglio il dolore, è ora che se ne dia un effettiva spiegazione per una scelta consapevole.
La medicina del futuro, che è già il presente, almeno per quanto riguarda alcuni medici, come chi scrive, è una medicina che deve prima di tutto fare leva sulla consapevolezza delle persone. La ricerca scientifica sta sempre più aprendo la strada ai percorsi di integrazione tra saperi occidentali e orientali, medicina convenzionale e alternativa, e in questo scenario le persone debbono ricevere prima di tutto informazione, ed essere messe nella condizione di accedere a una medicina finalmente integrativa per poi esercitare liberamente il proprio potere di scelta, anche di fronte a temi contraddittori e delicati come questo.
I derivati della Cannabis e la loro azione a livello cerebrale
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Vale la pena partire facendo chiarezza su cosa siano i derivati della Cannabis, marijuana e hashish.
La Marijuana è una droga ottenuta dalla canapa indiana (Cannabis indica), le cui foglie, essiccate e tritate, vengono fumate o ingerite per il loro effetto allucinogeno ed euforizzante. Il principio attivo della marijuana è il tetraidrocannabinolo (THC), che si concentra soprattutto nelle cime fiorite.
L’hashish, una droga ricavata dalla resina della pianta, ha un contenuto di THC otto volte superiore a quello della marijuana.
La canapa indiana cresce nelle regioni temperate; la concentrazione del principio attivo aumenta con l’altitudine delle zone di coltivazione e quanto più il clima di queste regioni è secco e asciutto. A eccezione di pochi paesi, la coltivazione della canapa indiana è ovunque illegale.
Il DM 18.04.2007 ha però inserito, anche in Italia, il principio attivo della Cannabis, il THC, il suo isomero, trans-THC, e un suo analogo, il nabilone, nella Tabella 2, nella quale si trovano farmaci capaci di produrre dipendenza, come la morfina, ma dotati di utilità terapeutica.
È da notare che la Cannabis e le sue preparazioni (marijuana, hashish, olio di hashish) sono inseriti in Tabella 1 ma non in Tabella 2, e questo esclude che la Cannabis e le sue preparazioni possano essere vendute e utilizzate per uso terapeutico.
Cosa si può dire ad oggi sui reali rischi associati all’assunzione di Cannabis e quali sono i margini terapeutici effettivamente offerti da farmaci come il Sativex, oggi disponibile anche in Italia per il trattamento di alcuni di sintomi associati a patologie specifiche?
Sappiamo che la Cannabis esercita i suoi principali effetti sul sistema nervoso centrale (SNC), sia fumata sia ingerita. Le sue proprietà psicoattive sono la ragione per cui è usata a fini voluttuari in molte parti del mondo.
Gli studi sugli effetti acuti della Cannabis nell’uomo suggeriscono che il sistema dei recettori dei cannabinoidi può essere implicato nella regolazione dell’umore, emozioni, attenzione, memoria, e molte altre funzioni cognitive.
Per quanto riguarda gli aspetti scientifici, fino agli anni ’70 si pensava che il principio attivo della Cannabis, il THC, agisse come l’alcol, modificando lo stato di aggregazione dei lipidi e delle proteine delle membrane dei neuroni grazie alla sua grande liposolubilità. Si scoprì invece che nel cervello dei mammiferi, incluso l’uomo, esistono siti di legame saturabili e in numero finito, ai quali il THC si lega ad alta affinità e in modo stereospecifico e la cui distribuzione cerebrale è consistente con i suoi effetti centrali. Nel cervello questi recettori (deti CB1 e CB2) sono addirittura i più abbondanti della loro categoria (recettori legati a proteine G) superando quelli di ben noti neurotrasmettitori come la dopamina, la serotonina e la noradrenalina.
Analogamente ai recettori per la morfina e gli oppiacei, anche i recettori CB1 non si trovano nel cervello umano per poter godere degli effetti gratificanti della Cannabis né per diventare da essa dipendenti, ma perché svolgono un ruolo importante nelle funzioni cerebrali.
Esistono infatti una serie di agonisti endogeni dei recettori CB1 (anandamide, 2-arachidonilglicerolo) che si producono localmente per azione di enzimi specifici su lipidi che costituiscono la membrana dei neuroni e della glia (acido arachidonico) e influenzano la trasmissione dell’informazione in specifiche aree cerebrali e in fenomeni di neuroplasticità implicati nell’apprendimento e nello sviluppo cerebrale.
Il punto cruciale è stabilire la misura in cui ciascuna di queste funzioni, e invero il sistema dei cannabinoidi endogeni e gli stessi recettori, sono influenzati dall’uso prolungato di cannabinoidi esogeni.
I recettori per i cannabinoidi si concentrano specificatamente in alcune aree cerebrali, il che rende ragione degli effetti della Cannabis sulle funzioni mentali (Vedi figura 1).
Ad esempio, l’elevata densità dei recettori CB1 nei Gangli della Base, deputati a garantire la permanenza dei comportamenti abituali appresi, detti skills, spiega la capacità della Cannabis di alterare la guida secondo un percorso abituale. Sotto l’effetto della Cannabis il soggetto cerca di compensare la compromissione della modalità automatica regredendo a una modalità tipica dei principianti, quella goal-directed e dipendente non più da stimoli che precedono l’azione (stimulus-response modality) e ne consentono il rapido e coordinato sviluppo ma dal risultato stesso dell’azione (action-outcome modality) il che rende l’azione inadeguata, lenta e scoordinata, come è appunto quella di chi sta imparando a guidare.
Studi epidemiologici mostrano che la guida sotto l’influenza della Cannabis raddoppia il rischio di incidenti mortali e amplifica l’effetto dell’alcol, nel senso che la loro associazione determina un rischio superiore alla somma di ciascun fattore preso individualmente.
Distribuzione e densità dei recettori ai cannabinoidi nel cervello umano. La densità è codificata in base ai colori. Le aree a densità più elevata (rosso, arancione e giallo) sono: la corteccia prefrontale dorso-laterale, che spiega l’alterazione delle funzioni cognitive da parte della Cannabis; il globo pallido e la substantia nigra, che spiegano gli effetti gratificanti e di rinforzo e l’alterazione delle funzioni extrapiramidali; la corteccia anteriore del giro del cingolo, che spiega gli effetti sul tono dell’umore (aumento sotto l’effetto della Cannabis, diminuzione in astinenza); e l’amigdala e l’ippocampo, che spiega gli effetti sulla memoria e sull’ansia.
(Tratto da: K. H. Taber, R. A. Hurley, “Endocannabinoids: Stress, Anxiety and Fear”; The Journal of Neuropsychiatry and Clinical Neurosciences, 2009)
I primi studi sull’utilizzo di Cannabis e i possibili danni cerebrali correlati
I possibili effetti avversi e rischi legati all’assunzione della Cannabis hanno iniziato a essere oggetto di studi scientifici intorno agli anni ’70 a partire dal fatto che gli stessi consumatori di Cannabis si lamentassero di problemi di memoria, concentrazione, perdita di motivazione, paranoia, depressione, dipendenza e letargia, e che tra le persone che consumavano marijuana abitualmente e in grosse dosi vi era chi sviluppava una “sindrome amotivazionale”, caratterizzata da passività, demotivazione e ansia.
I ricercatori tuttavia riscontravano, al massimo, piccole differenze cognitive fra i consumatori cronici di marijuana e i non consumatori, e i risultati tendevano a differire sostanzialmente da uno studio all’altro.
Una prima seria revisione è stata quella di Lynn Zimmer & John Morgan “Marijuana Myths Marijuana Facto. A review of the scientific evidence” (New York/San Francisco: The Lindesmith Center, 1997). I due ricercatori hanno riesaminato i dati emersi dagli studi svolti nei 30 anni precedenti, dai quali emergeva che il processo cognitivo più chiaramente colpito dalla marijuana fosse la memoria a breve termine.
Negli studi di laboratorio, infatti, i soggetti sotto l’influenza della marijuana non mostravano problemi a ricordare le cose imparate in precedenza. Tuttavia, mostravano una diminuita capacità di imparare e richiamare nuove informazioni. Questa diminuzione durava per tutta la durata dell’intossicazione. Tuttavia la revisione delle ricerche effettuate non permetteva di stabilire precisamente l’entitá e la permanenza dei danni da consumo cronico perché i risultati differivano sostanzialmente da uno studio all’altro.
Altra fonte rigorosa proviene dalla revisione svolta nel 1998 dall’House of Lords Select Committee on Science and Technology (Cannabis. The scientific and medical evidence. London: The Stationery Office, 1998); gli psichiatri del Royal College of the Royal Society of Psychiatry passarono in rassegna tutti gli studi sugli effetti a lungo termine dell’uso di Cannabis con la consulenza di uno dei massimi esperti sul campo, il Dr Jan van Amsterdam dell’Istituto Nazionale Olandese per la Salute Pubblica e per l’Ambiente, giungendo alla conclusione che la Cannabis può avere effetti indesiderati a lungo termine sulla performance cognitiva, ovvero le prestazioni del cervello, particolarmente nei forti consumatori, i quali mostravano un significativo indebolimento nei compiti che richiedono elaborazioni complesse di nozioni apprese (le cosiddette funzioni “direttive” del cervello).
Al tempo stesso misero in evidenza le difficoltà pratiche di stabilire eventuali effetti residui. Esse includono la impossibilità di ottenere valori di base precedenti all’uso della droga (p.es. misure delle funzioni cognitive del soggetto prima del loro primo uso di Cannabis), la difficoltà di stimare la dose di droga assunta, la necessità di un lungo periodo di “ripulitura” dopo la cessazione dell’uso per tener conto della lenta eliminazione della Cannabis residua dall’organismo, e la possibilità di confondere i deficit a lungo termine con gli effetti dell’astinenza.
Successivamente, Nadia Solowij e Brin Greyner (“Long term effects of cannabis on psyche and cognition”. In: Grotenhermen F, Russo E, eds. Cannabis and cannabinoids: pharmacology, toxicology and therapeutic potential. Binghamton, NY: Haworth Press, 2001) elaborano una ulteriore revisione della letteratura sull’argomento, giungendo alla conclusione che la natura dei deficit cognitivi come rilevata dai test psicologici suggerisce che i consumatori a lungo termine hanno prestazioni ragionevolmente buone nei compiti abituali della vita quotidiana, benché possano essere più distraibili.
È possibile incontrare difficoltà nell’esecuzione di compiti complessi che sono nuovi o non possono essere risolti dall’applicazione automatica di conoscenze precedenti, o con compiti che si basano molto sulla componente memoria, o richiedono pianificazione strategica, o l’esecuzione di più compiti contemporaneamente.
La “nuova Cannabis” aiuta paradossalmente la ricerca
Non molti forse sanno che negli ultimi dieci anni, i progressi scientifici nella conoscenza del meccanismo d’azione della Cannabis sono stati anche paradossalmente favoriti dalla selezione e immissione in commercio di varietà di Cannabis coltivabili in serra o in condizioni idroponiche, che forniscono un titolo di THC (15-20%) 20-40 volte più elevato di quello della Cannabis endemica (0.5-1%).
L’introduzione di queste varietà ha letteralmente cambiato lo status della Cannabis come droga. È un po’ quello che è successo con l’introduzione dell’eroina al posto dell’oppio o della cocaina base, volatile e da fumare (crack) al posto della cocaina cloridrato da sniffare.
L’introduzione delle varietà di Cannabis da coltura idroponica o in serra (es. skunk) ha svelato la vera natura della Cannabis, come il suo impatto sulla guida, la capacità di indurre dipendenza (con un forte aumento in Olanda e in Inghilterra, dove le varietà tipo skunk sono particolarmente diffuse, dei soggetti richiedenti un trattamento di disassuefazione), la compromissione a lungo termine delle funzioni cognitive e della memoria, e infine l’insorgenza, in individui predisposti, di sintomi schizoidi.
Il punto è che tutto questo era ampiamente prevedibile sulla base delle conoscenze scientifiche sulla Cannabis, ma l’assunzione di queste varietá di Cannabis ha funzionato come una lente di ingrandimento sugli effetti del tetraidrocannabinolo.
Ora, l’ultima frontiera in questo campo è l’introduzione dei derivati sintetici e volatili dei recettori cannabinoidi, che, sotto il nome di Spice, potevano essere liberamente acquistati su Internet fino a che non sono stati inseriti in Tabella 1, in compagnia dell’eroina e della cocaina.
Dunque la ricerca ha potuto chiarire molti dei dubbi circa gli effetti avversi dell’utilizzo cronico di Cannabis.
Cannabis e riduzione dei volumi cerebrali
Dagli studi condotti su modelli animali è emerso come una somministrazione a lungo termine di cannabinoidi, a dosaggi simili a quelli fumati, sia in grado di indurre cambiamenti neurotossici nell’ippocampo, inclusa una diminuzione del volume neuronale, della densità neuronale e sinaptica, e della lunghezza dei dendriti dei neuroni piramidali.
Per questa ragione, un gruppo di ricercatori australiani ha indagato gli effetti di un consumo elevato (oltre cinque dosi al giorno) e prolungato (più di dieci anni) di cannabis in 15 soggetti con un’età media di 39,8 anni e in 16 controlli. Dal campione in esame sono stati esclusi i pazienti affetti da disturbi mentali e neurologici e chi presentava una storia di abuso di molteplici droghe. In particolare, sono state prese in considerazione ippocampo e amigdala, due regioni cerebrali ricche di recettori per i cannabinoidi, e, tramite risonanza magnetica a elevata risoluzione, sono state misurate le eventuali variazioni volumetriche di queste aree.
I ricercatori hanno, così, osservato che i consumatori di cannabis mostravano una riduzione bilaterale del volume sia dell’ippocampo, sia dell’amigdala (rispettivamente del 12% e del 7,1%) e hanno identificato un’associazione inversa tra il volume ippocampale dell’emisfero sinistro e l’esposizione alla droga durante il decennio precedente. Inoltre, i soggetti che assumevano la Cannabis, rispetto agli appartenenti al gruppo di controllo, ottenevano una performance più scarsa per quanto riguardava l’apprendimento verbale ed erano esposti a un rischio più elevato di insorgenza di sintomi psicotici.
I risultati ottenuti confermano quanto osservato in precedenza, dimostrando come l’assunzione prolungata di elevate dosi di Cannabis induca una significativa riduzione del volume dell’ippocampo e dell’amigdala. Infatti, con elevata probabilità, la mancanza di effetti osservata in alcuni studi precedenti era dovuta all’impiego di tecniche di imaging caratterizzate da basso potere risolutivo o da un periodo di esposizione alla sostanza stupefacente troppo breve. Tuttavia, resta da chiarire l’eziologia delle riduzioni volumetriche osservate, in quanto potrebbero essere dovute a una perdita di glia o neuroni, a un cambiamento delle dimensioni cellulari o a una diminuzione della densità sinaptica.
Secondo una ricerca australiana del 2012, l’uso prolungato e con alte quantità di Cannabis danneggia il cervello, con danni alla memoria e alla capacità di apprendimento (Functional Connectivity in Brain Networks Underlying Cognitive Control in Chronic Cannabis Users).
I ricercatori del Melbourne’s Murdoch Childrens Research Institute (Mcri) e degli atenei di Melbourne e Wollongong, spiegano di avere dimostrato per la prima volta che il rischio associato alla marijuana è tanto maggiore quando più precoce è l’età in cui si prova lo “spinello”.
Nella ricerca pubblicata sulla rivista Neuropsychopharmacology, gli studiosi hanno usato la risonanza magnetica per esaminare il cervello di 59 persone che hanno usato marijuana per 15 anni in media, comparando le immagini con quelle di 33 persone sane che non hanno mai usato la droga.
Le immagini misuravano cambiamenti di volume, forza e integrità della materia bianca, il complesso sistema di connessioni del cervello.
A differenza della materia grigia, l’area del pensiero che raggiunge la sua punta a otto anni di età, la materia bianca continua a svilupparsi nel corso della vita. Nei consumatori di marijuana è stata osservata da un lato la distruzione delle fibre nervose, e dall’altro una riduzione di oltre l’80% del volume di questa sostanza, che a differenza della materia grigia continua a svilupparsi anche in età adulta.
L’età media di inizio consumo era pari a 16 anni, ma alcuni partecipanti allo studio avevano iniziato a fumare a 10-11 anni. E in caso di consumo precoce, i danni riportati erano superiori e particolarmente gravi a lungo termine.
Come spiegato in molte interviste da Marc Seal, autore senior della ricerca, questo è il primo studio che dimostra la presenza di alterazioni significative conseguenti all’uso di cannabis, e come l’età in cui si inizia a consumare regolarmente Cannabis rappresenti un fattore chiave nel determinare la gravità del danno cerebrale.
Cannabis e sviluppo cerebrale
Nel 2010 è stato anche pubblicato il primo studio che esamina l’influenza dell’uso della cannabis sulla “girificazione” del cervello, ossia la formazione dei giri e dei solchi cerebrali, pubblicato da un team di ricercatori spagnoli che hanno studiato la morfologia del cervello in un campione di 30 ragazzi utilizzando la Risonanza Magnetica Encefalica, per determinare se gli adolescenti e i giovani che ne fanno uso abbiano anomalie cerebrali.
I ricercatori hanno confrontato la conformazione strutturale dell’encefalo di questi ragazzi con un gruppo di 44 volontari sani. I risultati ottenuti dalla ricostruzione della morfologia cerebrale, pubblicati sulla rivista scientifica Brain Research, hanno dimostrato che nei consumatori di Cannabis si assiste a una riduzione dei solchi cerebrali in entrambi gli emisferi, oltre a uno spessore corticale più sottile nel lobo frontale destro.
Fra i giovani non consumatori, l’età gioca un ruolo importante nella riduzione della girificazione e dello spessore corticale, mentre fra i consumatori non dipendeva né dall’età, né da quando si è iniziato a consumare Cannabis, né dall’esposizione cumulativa alla sostanza.
Questo studio suggerisce che la Cannabis, se usata durante l’adolescenza o da giovani adulti, possa provocare una prematura alterazione della girificazione corticale, simile a quella che accade in età solitamente più avanzata nei non consumatori, il che corrisponde a una alterazione dello sviluppo cerebrale i cui effetti dovranno essere ulteriormente approfonditi per valutarne i rischi per la funzionalità cerebrale.
Cannabis e rischio suicidario
Uno studio neozelandese dal titolo Cannabis use and suicidal ideation, redatto dall’Università di Melbourne nel 2012, ha utilizzato i dati di uno studio della “Christchurch Health Study” che analizzava il comportamento dei bimbi nati nel 1977 in Nuova Zelanda, al fine di stabilire se esistesse una relazione causale tra l’uso di Cannabis ed eventuali tendenze suicide.
Ebbene, nel campione osservato è risultato che il 38 per cento delle femmine e il 31 per cento dei maschi aveva avuto pensieri suicidi. L’età media di insorgenza di tali pensieri è stata fissata ai 17 anni per le femmine e 18 anni per i maschi.
Inoltre, la probabilità di avere tali pensieri nei consumatori giornalieri di Cannabis è stata rilevata nel 74,4 per cento per le femmine e del 51 per cento per i maschi. Mentre per i non consumatori questo dato si fermava rispettivamente al 35 e al 25,5 per cento.
Questo studio mostra come l’uso di Cannabis soprattutto in persone vulnerabili può incrementare il rischio di mortalità, soprattutto in relazione alle ricadute sull’attenzione e sulla stabilità psichica dei soggetti, agli stati depressivi e demotivazionali che la Cannabis è in grado di creare.
Unico neo da rilevare in questo studio, peraltro scientificamente rigoroso è l’assenza di indagine relativa ad altri possibili cofattori, come eventuale utilizzo di psicofarmaci concomitante.
Cannabis e psicosi
Uno studio sugli effetti dell’uso prolungato di Cannabis, pubblicato sugli Archives of General Psychiatry da psichiatri dell’università di Queensland diretti da John McGrath, ha dimostrato che la marijuana usata a lungo raddoppia il rischio di soffrire di psicosi e aumenta di quattro volte il pericolo di allucinazioni.
Già in passato erano stati eseguiti studi sugli effetti del consumo di marijuana o di altri derivati della Cannabis. I risultati di questi studi hanno lasciato emergere un complesso rapporto tra droga e psicosi: in alcuni casi addirittura sembrava addirittura che chi risultava poi predisposto alla psicosi fosse più incline a consumare marijuana. Ma se vi fosse un meccanismo di causa-effetto e di che tipo restava poco chiaro.
Ciò nondimeno le gravi conseguenze dell’uso a lungo termine di Cannabis erano emerse in uno studio sulle comunità indigene d’Australia che sono grandi consumatrici di cannabis. Si era visto che dopo 15 anni di abuso dello stupefacente cominciano a comparire effetti mentali cronici, con casi di psicosi irreversibili, oltre a depressione e dipendenza.
Il nuovo studio australiano sulla popolazione generale fa un po’ più di luce sul legame tra Cannabis e psicosi: gli esperti hanno monitorato per molti anni la salute psichica di oltre 3.800 giovani che per alcuni anni (fino a sei) avevano fatto uso di marijuana. È emerso che maggiore è il tempo durante cui i giovani hanno consumato questa droga, maggiore è il rischio di soffrire di psicosi e allucinazioni.
Per verificare che il legame tra Cannabis e psicosi fosse di causa-effetto, cioé che fosse proprio la droga ad aumentare il rischio, gli esperti hanno esaminato un sottogruppo di oltre 200 coppie di fratelli, uno dei quali usava marijuana. Ne è risultato che solo per il fratello che consumava marijuana aumentava il rischio psicosi.
Cannabis e sessualità
Se negli anni ’70 la Cannabis era considerata la “droga dell’amore”, poiché i suoi consumatori dichiaravano un miglioramento della proprio vita sessuale, i risultati di uno studio pubblicato sul Journal of Sexual Medicine nel 2011 e condotto dal dottor Rany Shamloul, le cui ricerche sono il frutto di una collaborazione tra università di Ottawa, l’università del Canada e l’università del Cairo, hanno mostrato invece un collegamento tra l’utilizzo di marijuana e le disfunzioni erettili, individuando nel pene un recettore per la Thc (tetraidrocannabinolo), principio attivo della cannabis, che funge da inibitore nell’erezione.
I recettori di tale principio attivo sono infatti situati sulla muscolatura liscia del pene e questo induce effetti sulla funzione erettile, di cui la muscolatura liscia risponde per il 70%.
Da un rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga risulta che la marijuana è una droga usata ogni anno da 162 milioni di persone nel mondo, ed il suo uso è molto diffuso soprattutto tra i giovani, che ne sottovalutano ampiamente i rischi contrapposti ai momentanei “benefici”.
“È un messaggio forte quello che dobbiamo comunicare alle nuove generazioni ed ai giovani uomini”, ha osservato il ricercatore, “poiché la vita sessuale adulta di tali ragazzi potrebbe essere compromessa, e se ulteriori studi confermeranno i risultati ottenuti dalla ricerca, i giovani dovrebbero scegliere tra il ‘piacere’ di uno spinello giovanile ed il ‘piacere’ di una sana e soddisfacente vita sessuale.”
Cannabis e salute dentale
Una ricerca neozelandese della Scuola di Medicina di Dunedin, pubblicata nel 2008, ha seguito oltre 900 persone di età fra 18 e 32 anni, monitorando regolarmente il loro consumo di Cannabis e i controlli dentari. Lo studio, pubblicato sull’ultimo numero della rivista dell’American Medical Association, indica che la malattia peridentaria colpisce più severamente chi fuma più spesso: in questo gruppo una persona su quattro ha contratto una condizione cronica entro l’età di 32 anni.
Dai check-up più recenti è risultato che appena il 6,5% dei non fumatori di Cannabis mostrava forti sintomi di infiammazione e di deperimento dei tessuti associati con affezione peridentaria. La proporzione sale però all’11% fra chi fuma spinelli occasionalmente, ed al 24% fra chi ha ammesso di fumarli regolarmente sin dall’età di 18 anni. Nell’insieme, fra i fumatori abituali, cioè chi fuma in media 41 o più spinelli l’anno, fra 18 e 32 anni, il rischio di contrarre la malattia è del 60% superiore alla media della popolazione, anche escludendo altri fattori possibili come la placca dentaria.
Studi precedenti avevano già legato la malattia peridentaria al fumo di tabacco, ma questo studio è il primo che la lega all’uso di marijuana.
Il risultato è stato ulteriormente supportato da un lavoro del 2012 (Periodontal and oral manifestations of marijuana use. Rawal SY, Tatakis DN, Tipton DA. J Tenn Dent Assoc. 2012) che, oltre a presentare lo studio di due casi specifici, ha revisionato la letteratura sull’argomento, concludendo per un aumentato rischio di paradontosi (allargamento gengivale) in soggetti consumatori cronici di Cannabis.
Dossier dedicato alla Cannabis, diviso in cinque puntate. A cura della dott.ssa Erica Francesca Poli, psichiatra, psicoterapeuta. Parte quinta.
Cannabis e cancro
I ricercatori del Jonsson Cancer Centre dell’Università di California, a Los Angeles, sono arrivati alla conclusione che fare uso di marijuana può far venire il cancro, a causa delle sostanze cancerogene contenute nella marijuana, molto più forti che nel tabacco.
Secondo il Dottor Zhang, senior researcher dello studio, chi fuma poco, rischia anche poco, chi fuma molto, corre molti rischi e chi ha cominciato a fumare giovanissimo dovrebbe stare in guardia nei confronti dei sintomi del cancro alla testa e al collo, molto comune anche fra i fumatori accaniti e i forti bevitori.
Un ulteriore studio dell’Università di Leicester nel Regno Unito indica che fumare Cannabis altera il DNA e aumenta il rischio di cancro. I risultati di questo nuovo studio, che getta nuova luce sull’uso della Cannabis come stupefacente, sono stati pubblicati sulla rivista “Chemical Research in Toxicology”.
Per la ricerca, condotta da scienziati provenienti dal Dipartimento di Studio sul Cancro e Medicina Molecolare del Karolinska Institute di Stoccolma in Svezia, è stata impiegata una tecnica ultrasensibile detta cromatografia liquida e la spettrometria di massa tandem per trovare chiare indicazioni sul possibile danno al DNA in condizioni di laboratorio.
I ricercatori mettono l’accento sul fatto che il fumo, in particolare quello di tabacco, è notoriamente tossico. Di fatto, questo, contiene oltre 4 mila sostanze chimiche di cui almeno 69 sono state classificate come cancerogene. La marijuana per essere fumata viene, in genere, mescolata con il tabacco poiché da sola è meno combustibile. In virtù di questa sua caratteristica, la Cannabis contiene il 50% in più di policiclici aromatici cancerogeni, idrocarburi compresi il naftalene, benzantracene e benzopirene, che non il fumo di tabacco. In totale, il fumo di questa, contiene circa 400 composti, di cui 60 cannabinoidi.
Nell’articolo pubblicato, gli scienziati forniscono i dati relativi all’analisi condotta con la spettrometria per provare che, in condizioni di laboratorio, il fumo di Cannabis danneggia il Dna umano.
Cannabis e dipendenza
I lavori più importanti che di recente hanno cercato di tracciare una revisione sull’argomento portano la firma di Steven Goldberg e Gigi Tanda del Nida, l’Istituto nazionale sull’abuso di droga americano, del cagliaritano Gaetano Di Chiara e di Beat Lutz del Max Planck of Psychiatric di Monaco.
In effetti, come abbiamo visto, la marijuana ha un suo recettore nel cervello e si inserisce in delicatissimi meccanismi neurochimici alla base delle funzioni cognitive e crea dipendenza psichica.
La ricerca del Nida, il massimo istituto americano di studi sulle sostanze stupefacenti, pubblicata pochi anni fa su “Nature Neuroscience”, ha dimostrato che il principio della cannabis, il Delta 9 tetraidrocannabinolo (Thc), ha gli stessi effetti neurologici della cocaina.
Per capire quali sono gli effetti della marijuana sul nostro cervello, basta andare a vedere come sono distribuiti i suoi recettori, concentrati nelle parti limbiche dove hanno sede le emozioni e le funzioni cognitive, come ben illustrato nelle ricerche di Gaetano Di Chiara, ordinario di farmacologia dell’università di Cagliari, presidente del Fens, Federazione europea delle società di neuroscienza.
Di Chiara ha scritto una serie di studi pubblicati da “Nature” e “Science”, dove ha dimostrato che il principio attivo della cannabis, il Thc, ha la capacità (come i principi attivi delle droghe più pesanti, compresa l’eroina e la cocaina) di aumentare i livelli di una sostanza chimica, la dopamina, che ha la funzione di trasmettere le informazioni tra le cellule cerebrali, facendo da mediatore chimico per le esperienze di piacere e provocando dipendenza in individui che ne facciano uso ripetuto.
Anche se in Italia il fenomeno della dipendenza da Cannabis è meno noto, ad Amsterdam, nelle numerose cliniche di disintossicazione da Cannabis, i medici riportano effettivamente numerosi casi di dipendenza.
La marijuana incide dunque in maniera profonda nelle funzioni che noi consideriamo squisitamente umane. Come a dire che modifica radicalmente l’azione del nostro cervello facendoci agire diversamente da come faremmo senza averla assunta. Considerarla innocua dunque sarebbe ormai semplicistico.
L’ultima indagine Espad (European School Survey Project on Alchool and Other Drugs) fatta in 250 scuole fra la popolazione degli istituti secondari italiani, nella fascia d’età 15-19 anni, ha registrato negli ultimi 10 anni un abbassamento ulteriore dell’età della prima iniziazione alla droga: 11 anni.
Il punto cruciale è che la gravità degli effetti della marijuana dipende dall’età di iniziazione alla sostanza.
Se si cominciano a fumare spinelli quando la struttura psichica è già formata l’effetto è minore. Ma se si assume marijuana nella prima adolescenza, la personalità si costruisce in funzione della sostanza e il rischio di dipendenza aumenta.
La Cannabis terapeutica
Dopo avere parlato a lungo di rischi associati all’uso della Cannabis è doveroso parlare anche di alcuni effetti terapeutici che si sono rivelati utili nel trattamento di alcuni sintomi associati a patologie croniche o considerate incurabili.
I cannabinoidi sono utilizzati come terapia complementare nella gestione del dolore oncologico. In questo caso, i farmaci di prima linea restano gli oppiacei e i narcotici analgesici, ma i cannabinoidi possono avere il ruolo di adiuvanti, potenziando l’azione dei narcotici analgesici.
Nella terapia della spasticità nella sclerosi multipla, l’estratto di Cannabis applicato come spray orale, ha mostrato un’efficacia superiore al placebo in trials clinici controllati.
Secondo uno studio compiuto su 1.366 pazienti e pubblicato sul “British Medical Journal” nel 2001, la marijuana contiene dei componenti che hanno dimostrato una certa efficacia anche contro la nausea e il vomito causati dalla chemioterapia. Il derivato della cannabis risulta migliore rispetto ad altri farmaci, come il Plasil.
Vi sono poi casi singoli e testimonianze di persone che hanno sperimentato effetti terapeutici notevoli, tra cui anche un paziente affetto da epilessia che ha riferito una remissione delle crisi dopo assunzione di marijuana, ma questi casi andrebbero tutti verificati con studi specifici, al momento non disponibili.
La Cannabis terapeutica è disponibile sia sotto forma di analoghi di sintesi non vegetali (il farmaco Sativex, dispensato dal Sistema Sanitario Nazionale in caso di patologie specifiche) sia sotto forma di analogo vegetale (nabilone).
Questi farmaci vengono somministrati per via orale o intramuscolare, quindi senza che vi sia alcuna sovrapposizione con le vie di assunzione voluttuarie, tant’è che in Paesi nei quali tali farmaci sono già disponibili da più tempo, questo non ha prodotto alcun incremento dei tassi di assunzione a scopi voluttuari di Cannabis.
di Erica F. Poli
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