Gli alberi che camminano, ulivi millenari che conservano storie e attraversano il tempo
- Giuseppe Melillo Antropologo ed esperto di sviluppo locale
In un giorno di maggio mi fermo a prendere un caffè in un bar lungo una strada interna a confine tra Basilicata e Calabria. Un confine naturale segnato dal fiume Sinni che in silenzio si trascina, fino alla foce del Mar Jonio, le storie che il monte Papa ascolta dalle genti del Tirreno. Ed è stato qui che per la prima volta ho sentito parlare degli “alberi che camminano.
Ho offerto una sigaretta a un uomo seduto sotto una veranda coperta dal glicine a ripararsi dai primi raggi del sole che in queste zone picchiano forte per parecchi mesi. Mi siedo a fianco e insieme ci fumiamo in silenzio le “nostre” sigarette. Guardiamo la strada e ogni tanto un’auto passa a velocità ridotta salutando con il clacson il mio compagno di fumo.
– Dove andate assignurì? -Mi ha chiesto. Ho detto il nome di un paese lì vicino, ma non è vero.
Non stavo andando da nessuna parte. Avevo iniziato una strada e volevo vedere fin dove arrivava. Mi stava portando al mare e l’avevo presa dalla parte alta dell’Appennino lucano.
Quel giorno di maggio non avevo voglia di fare la solita strada e avevo deciso di seguirne una che non avevo mai fatto per intero, deviando per svincoli e incroci che penso non sarei in grado di ripetere. Comunque, non volevo dargli l’impressione di vagabondare in un giorno di maggio.
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Il “assignurì”, con il quale si era rivolto a me ammetteva una forma di rispetto che si ha verso lo straniero ma anche verso qualcuno che si percepisce come… distinto. (Ci tocca di tutto!!!). Non volevo rovinargli questa impressione e non ho mai risposto in dialetto.
“Conoscete qualcuno?” mi ha chiesto dopo un altro tiro di sigaretta.
“No! Non conosco nessuno, ci vado per lavoro.” –ho trovato una scusa, ma mi sono reso immediatamente conto che dovevo stabilire un lavoro perché sarebbe stata la domanda successiva.
“E che lavoro fate, assignurì?” – aggiungendo – “se posso permettermi!”
“Si figuri!” – ho risposto – “lavoro con i boschi e studio gli alberi!”
“Sì, sì! Giro nei boschi e studio gli alberi.” Ripetevo soprattutto a me stesso un po’compiaciuto per quella risposta imprevista. Il senso di adattamento alla strada non era completamente scomparso.
Mi scoprivo un po’ Holden Caulfield e vicino al suo sentirsi “il più grande bugiardo che voi abbiate mai conosciuto”. Mi ritornava in mente la copertina bianca del romanzo di Salinger e le bugie escogitate dal protagonista Holden.
Il bianco di quella copertina era così simile al bianco della barba incolta dell’uomo vicino a me.
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“Ah sì! Con gli alberi?” – aveva esclamato interrompendomi dai miei pensieri – “Anche voi qui per gli alberi che camminano?”
“Sì certo solo che non so dove siano e nemmeno come trovarli. Ho sentito tante storie su di loro. Ma credo che siano invenzioni.”
Mentivo ancora, ma speravo di provocare una reazione per farmi raccontare quel che sapeva sugli “alberi che camminano”. Non credo avrebbe risposto ad altre domande sugli alberise avesse capito che era la prima volta che ne sentivo parlare. Si sarebbe esposto ai giudizi di un estraneo, rischiando di essere considerato un tipo strano. Questa storia degli alberi mi aveva colpito subito e sembrava che il viaggio stesse avendo la sua motivazione.
Mi stavo imbattendo in una storia che non conoscevo e mi aveva cercato. Voleva che io la ascoltassi. Ero pronto a farla mia.
“Eh, eh, eh! Non sono in tanti saperla. Anche perché se la racconti pensano di trovarsi di fronte a un ubriacone o a un chiacchierone cantastorie.” ha detto con l’aria di uno che conosce il mondo e i suoi segreti.
“Capisco! Oggi non si ascolta più tanto, vero?” ho chiesto.
Oramai ero certo che avrebbe raccontato senza timore.
“Eh sì! Eh sì! Eh sì!” aveva risposto intervallando le esclamazione con il movimento del capo.
Mi ha chiesto ancora una sigaretta e gliel’ho offerta invitandolo a prendere un caffè.
“No, grazie, una birra magari!” Ed entrato nel bar ha chiesto alla signora, chiamata per nome, una birra fredda e un caffè per me.
Dopo il primo sorso, con la schiuma che ancora gli contornava le labbra ha cominciato a raccontare di questi alberi:
“Devi sapere che qui, proprio qui c’erano i Greci, i Romani, i Turchi e tutti quanti via via fino ai piemontesi e pure i briganti.”
Dal voi era passato al più confidenziale tu. Ormai io ero entrato nella sua sfera quindi poteva permettersi confidenze e rivelazioni.
“Ma proprio tutti! Questa era una terra ricca e generosa e un piatto per tutti non mancava mai!” raccontava- “All’inizio proprio, erano i Greci che non c’avevano più da mangiare e vennero in Italia! Come hanno fatto gli albanesi! Ti ricordi? Si è visto pure in televisione! Sono stati pure qua.” faccio cenno di sì con la testa.
“Insieme ai Greci arrivarono pure quelli di Troia, quelli del cavallo di Ulisse. L’ho sentito da un professorone di una università che è venuto proprio qua a studiare e a scavare con un sacco di studenti stranieri.”
“Ma gli alberi che c’entrano?” ho chiesto.
“Hai visto che non sai proprio niente!” diceva con fierezza.
Sorseggiava la birra mentre il mio caffè sembrava disperso.
“Quelli di Troia, quelli vivi, perché Ulisse da dentro il cavallo fece una strage, scapparono sulle navi e inseguiti dai Greci arrivarono qua. Qua fecero pace con i Greci e vissero tranquilli, tanto c’era spazio e lavoro per tutti. Quelli di Troia prima di scappare presero delle cose che potevano servire e portarono anche degli alberi di ulivo che piantarono in queste zone. Da allora questi alberi una volta cresciuti in altezza hanno incominciato a spostarsi di lato. Un po’ avanti , un po’ a destra, un po’ a sinistra. Così un po’ oggi, un po’ domani, si son trovati lontani da dove erano stati piantati.”
” Ma sono passati più di 3.000 anni”- rispondo io- “Saranno altri alberi!”
” Ma no! Che vuoi che siano 3000 anni per un ulivo.”
“E dove sono questi ulivi? Mi ci porti? Andiamo con la mia macchina.”
“Dove sono! Ehhh!”– accompagnava la frase con un gesto del braccio che indicava tutta la vallata.
“Ho capito”- dicevo – “Fa troppo caldo per togliersi dall’ombra e così?”
Non diceva niente, ma annuiva con la testa. Il mio caffè era finalmente arrivato. Pessimo. Ho fumato una sigaretta e naturalmente ne ho offerta una anche al mio compagno di tavolo per poi dirgli che dovevo andare. Lui mi ha salutato alzandosi e stringendomi con vigore la mano, avvertivo le sue dita grosse e callose. Mi sono rimesso in viaggio verso la statale che conduce alla Jonica e pensavo alle parole dell’uomo.
In effetti i Troiani compaiono spesso da queste parti. Tra Valsinni e Rotondella, lungo il fiume Sinni dalla parte che guarda al parco del Pollino c’è un sito, Lagaria, che si dice fondata da Epeo, costruttore del cavallo di legno che ingannò gli abitanti di Troia. Poi c’è l’antica Siris che alcuni vogliono fondata proprio da esuli Troiani.
Questa storia degli alberi che camminano mi ha catturato e nei giorni seguenti ho cercato tra i libri, depliant, guide. Ricordavo di aver letto qualcosa da qualche parte. Non trovando nulla mi sono rassegnato alla sconfitta, era come cercare il classico ago in un pagliaio. Esattamente un anno dopo, di maggio, ma con poco sole, cercavo delle notizie sul Risorgimento mentre sfogliavo anche “Terroni” di Pino Aprile.
Apro il libro direttamente al capitolo “I Patriarchi” e noto degli appunti che avevo preso. Erano le notizie sugli alberi che camminavano! Di colpo mi ritorna in mente la domenica dell’anno prima, seduto a parlare di alberi che camminano con uno sconosciuto che sorseggiava birra e fumava le mie sigarette.
La lettura mi prende completamente. Quell’uomo non aveva detto sciocchezze nemmeno si discostava da quello che stavo leggendo. Leggo, infatti, che nella valle del Sinni nell’attuale Basilicata e nella valle del Gargaì in Calabria superiore, presso Saracena un dei comune calabresi alle pendici del Monte Orsomarso a sud del Parco del Pollino, esistono ulivi millenari che camminano.
La descrizione di questa singolare dinamica, propria dell’ulivo, era spiegata nel libro:
“Cresce, si svuota, diviene cavo, continua a crescere ma, invece di morire restando uno, si scinde in più individui, i quali riavviano il ciclo” …al massimo del suo diametro, l’ulivo comincia a dividersi: il tronco spesso ormai vuoto in corrispondenza di ferite, nodi, potature, attacco di parassiti, si assottiglia, si rinsecchisce, muore e si crepa verticalmente La ceppaia si divide e ogni “pianta derivata” si porta via, in dote, la sua parte originaria. Questo può avvenire in più punti o più volte, nel tempo, e ognuna delle quali comincia, verso i mille anni, una vita propria”.
Dal quel pomeriggio di maggio, ogni volta che incontro un ulivo secolare, mi fermo, lo saluto e gli chiedo il permesso di sedermi vicino. Come si fa con gli antichi padri. Magari se è di buon umore mi racconterà una storia.
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