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La Mente Puo' Controllare E Vincere Il Dolore Fisico?
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La mente puo’ controllare e vincere il dolore fisico?

 

 La mente può controllare e vincere il dolore fisico?

Non è tutta una questione mentale ma un moderno approccio potrebbe offrire sollievo a chi soffre di dolore cronico.

DI MERYL DAVIDS LANDAU

Dan Waldrip ha sofferto, a fasi alterne, per 18 anni. Era un 27enne in salute quando una mattina, il giorno dopo aver rasato il prato, si è svegliato con un dolore alla schiena talmente lancinante da non riuscire ad alzarsi dal letto.

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In seguito ha cominciato ad avere dolore a intermittenza: si sentiva bene per settimane e poi arrivavano giorni di dolore intenso o sordo.

Nel corso degli anni Waldrip ha speso migliaia di dollari in procedure chiropratiche, agopuntura, fisioterapia, antidolorifici e numerosi altri trattamenti. Una volta, durante un viaggio di lavoro in Sudafrica, per disperazione si è rivolto a un “guaritore di energia” in un mercato all’aperto. Poiché nulla sembrava avere effetto, Waldrip si è rassegnato al fatto che il suo problema alla schiena avrebbe influenzato la sua vita per sempre.

“Se mentre camminavo mi cadeva qualcosa, andavo nel panico all’idea che piegarmi avrebbe potuto peggiorare la situazione”, spiega Waldrip che ora lavora come gestore di private equity a Luisville, in Colorado.

Tutto è cambiato, però, quando a una manifestazione di nuoto della figlia ha visto un volantino in cui si reclutavano pazienti con dolore cronico alla schiena per uno studio clinico su un trattamento, chiamato Terapia di rielaborazione del dolore, o PRT (dall’inglese Pain Reprocessing Therapy).

L’obiettivo della terapia era riprogrammare il cervello di Waldrip insegnandogli che il suo dolore continuo non era dovuto a una lesione persistente del tessuto, ma a un malfunzionamento dei circuiti neurali correlati alla sua paura del dolore, ovvero ciò che gli esperti chiamano “catastrofizzazione”.!!!!!!!!!!!!!!!!

Il dolore cronico affligge circa il 20% degli americani, secondo il Centers for Disease Control and Prevention (Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie). Le conseguenze devastanti della dipendenza da analgesici oppioidi — che nel solo 2019 ha ucciso quasi 50.000 persone negli Stati Uniti — hanno spinto i ricercatori a cercare trattamenti innovativi, oltre a nuovi farmaci.

Le ricerche sugli approcci alternativi sono “moltiplicate in modo esponenziale”, spiega Padma Gulur, direttrice del programma per la strategia di gestione del dolore presso il Duke University Health System. “Cerchiamo opzioni alternative agli oppioidi e, francamente, anche ai farmaci” per evitare effetti indesiderati e dipendenza, spiega la scienziata.

Un campo di ricerca promettente si occupa del fatto che “catastrofizzare” il dolore, ovvero pensare che non migliorerà mai, che è il peggiore di sempre o che ti rovinerà la vita, è un approccio che gioca un ruolo fondamentale rispetto alla possibilità che queste previsioni alla fine si avverino.

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Questo effetto è molto diverso dai commenti sbrigativi del tipo “è tutta una questione mentale” che i pazienti affetti da dolore cronico talvolta si sentono dire dai medici quando questi ultimi non riescono a individuare una causa fisica al dolore, spiega Yoni Ashar, psicologo del Weill Cornell Medical College e coautore dello studio a cui ha preso parte Waldrip.

Ad alcuni ricercatori contemporanei non piace nemmeno il termine “catastrofizzazione”, poiché potrebbe implicare una sorta di colpa o responsabilità del soggetto.

“È possibile provare un dolore molto reale e debilitante senza alcun danno biomedico all’organismo, a causa dei cambiamenti nei modelli di elaborazione del dolore”, spiega Ashar. In questi casi, prosegue, “l’organo principale che causa il dolore di fatto è il cervello!!!!!!!!!!!!!!!!!!!”. Ecco perché, per alcune persone, i trattamenti come la terapia di rielaborazione del dolore sembrano funzionare.

Durante lo studio clinico, Waldrip ha scoperto che il dolore derivante da una lesione fisica non va e viene, come invece accadeva con il suo dolore lombare. Inoltre, si è reso conto che sia la prima manifestazione del dolore che gli episodi più intensi che sono seguiti erano tutti correlati a importanti fattori di stress della sua vita. Nel 2022, Waldrip è andato a sciare sulle montagne dello Utah per cinque giorni consecutivi e non ha sentito neppure un dolorino.

La richiesta di alternative ai farmaci oppioidi
Il concetto per cui il dolore può peggiorare quando la persona che lo percepisce ci pensa in modo costante, esaspera il livello dell’esperienza dolorosa o si sente impotente nei confronti del dolore, viene preso in considerazione da decenni. Una scala di catastrofizzazione del dolore che valuta i livelli di questo pensiero è stata sviluppata nel 1995 ed è ancora ampiamente in uso. Eppure molti medici al di fuori dei circoli accademici non hanno familiarità con l’impatto di questo comportamento, secondo gli esperti.

Molte persone che hanno partecipato al famoso programma multidisciplinare sul dolore del Centro ambulatoriale dello Spaulding Rehabilitation Network a Medford, in Massachusetts, hanno combattuto contro il dolore cronico per anni prima di arrivare lì. Eppure, quando il personale dello Spaulding spiega che
i pensieri possono avere un ruolo nel dolore, la maggior parte dei soggetti rimane sorpresa, spiega Eve Kennedy-Spaien, supervisore clinico del programma.

C’è ancora molta strada da fare prima che l’idea che i pensieri negativi sul dolore possano peggiorarlo diventi un luogo comune, afferma l’esperta.

Un numero sempre maggiore di studi documenta il fatto che un punteggio elevato sulla scala della catastrofizzazione è correlato a risultati sanitari peggiori. Uno dei primi studi, che risale al 1998, riporta che le vittime di incidenti stradali con i punteggi di catastrofizzazione più elevati presentavano dolore e disabilità più intensi (indipendentemente dai livelli di depressione o di ansia) rispetto ad altri pazienti con lesioni simili. Scoperte recenti si aggiungono a questi risultati: l’anno scorso alcuni ricercatori europei hanno stabilito che i pazienti affetti da artrite reumatoide e artrite psoriasica che valutavano il proprio livello di dolore come “molto elevato” avevano una qualità della vita peggiore rispetto ad altri affetti dalle medesime malattie, anche quando l’analisi obiettiva dei loro sintomi non supportava tale considerazione.

Alcuni scienziati che studiano bambini colpiti da anemia falciforme hanno scoperto che la catastrofizzazione era il singolo fattore predittivo principale della possibilità che il dolore interferisse con le attività quotidiane quattro mesi dopo.
Il modo in cui i bambini pensavano al proprio dolore rivestiva un ruolo più significativo di qualunque altro fattore, “più di ansia, depressione e addirittura più del livello di dolore provato inizialmente”, spiega Mallory Schneider, psicologa di una struttura privata di Roswell, in Georgia, coautrice dello studio.

Gli scienziati hanno anche riportato che la percezione dei dolori più acuti era associata in modo significativo a una maggiore catastrofizzazione del dolore stesso, nonché a sintomi depressivi, nelle donne colpite da cancro al seno.

Anche se gli esperti sono al lavoro per individuare con precisione i meccanismi coinvolti, sanno che catastrofizzare influenza di fatto il cervello. Gli effetti sono stati documentati con risonanze magnetiche funzionali in cui le regioni del cervello coinvolte nella percezione e nella modulazione del dolore si illuminavano quando i pazienti avevano pensieri più catastrofizzanti.

Avere pensieri estremi quando si prova dolore è un processo naturale, che ha senso dal punto di vista biologico, spiega Kennedy-Spaien: “Il nostro cervello è programmato per identificare i pericoli e analizzare i casi peggiori per proteggerci”, spiega. Ma in alcuni casi l’allarme continua a suonare anche dopo che la lesione fisica è guarita, aggiunge.!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

I medici a volte esasperano la catastrofizzazione, utilizzando tecnicismi che incutono timore per descrivere la situazione al paziente, ad esempio spiegare l’artrite come “ossa contro ossa” o mostrare un’ernia del disco anche quando non provoca alcun dolore: tutti input che possono aumentare il senso di pericolo, afferma Kennedy-Spaien.

Anche il razzismo in ambito medico può avere un ruolo, fa notare Schneider, in quanto i neri sono generalmente più inclini alla catastrofizzazione rispetto ai bianchi. “È ampiamente noto che i neri vengono presi meno sul serio riguardo al dolore e, nel corso del tempo, questa esigenza di doversi spiegare in modo più deciso per farsi ascoltare può diventare un comportamento acquisito”, aggiunge.

La catastrofizzazione si può superare
I medici del dolore che riconoscono l’importanza di placare la catastrofizzazione in genere consigliano ai pazienti una terapia cognitivo-comportamentale, spiega Mark Lumley, professore di psicologia presso la Wayne State University. Questa pratica psicologica viene spesso usata per trattare depressione, disordini alimentari e anche la sindrome post-traumatica da stress. Ma la letteratura mostra che questo tipo di trattamento non è utile per il dolore, aggiunge Lumley. Una revisione del 2019 di studi sul dolore muscoloscheletrico cronico valutava l’uso della sola terapia unita all’esercizio fisico e concludeva che i vantaggi di questo approccio erano risultati ridotti quando non del tutto assenti.

Un approccio diverso dei medici potrebbe essere trascorrere più tempo parlando con i pazienti della frequenza e della gravità del loro dolore, suggerisce Schneider. La scienziata ha avviato il suo studio dopo aver ascoltato sistematicamente bambini affetti da anemia falciforme descrivere il proprio dolore in modo estremo. “Dicevano ‘è il peggiore che ho mai provato’, oppure, ‘non passa mai’. Ma quando ponevo loro altre domande, ottenevo una prospettiva più equilibrata”, spiega. I bambini realizzavano che avevano provato dolori peggiori in passato o che gli episodi precedenti erano di fatto poi scomparsi, aggiunge.

Invece di chiedere semplicemente ai pazienti di valutare il dolore su una scala da 1 a 10, ovvero il modo classico con cui viene misurato il dolore, Schneider suggerisce ai medici di indagare ulteriormente. “In questo modo i pazienti possono ottenere una visione più precisa della propria esperienza, e ciò aiuta il medico, che altrimenti può sentirsi frustrato nei confronti del paziente e quindi non trattare correttamente il suo dolore”.

Includere uno screening sulla catastrofizzazione del dolore tra le pratiche ordinarie potrebbe essere molto utile, spiega. E aggiunge: “Le strutture mediche hanno migliorato l’attività di screening per depressione e ansia, ma non altrettanto per la catastrofizzazione”.

Allo Spaulding, team composti da medici, psicologi, fisioterapisti, terapisti occupazionali e altri esperti hanno tutti l’obiettivo di distogliere l’attenzione della persona dai “messaggi di pericolo” che i pazienti affetti da dolore si ripetono regolarmente. Questi messaggi spesso si focalizzano sul rischio di ulteriori lesioni fisiche o dolore estremo, se muovono il corpo in un modo che provoca fastidio.

“Aiutiamo le persone a capire la differenza tra dolore e danno”, spiega Kennedy-Spaien. Alcuni movimenti possono provocare sensazioni spiacevoli o anche dolore, ma questo non significa che viene provocato un danno, afferma. Iniziare lentamente a compiere questi movimenti è particolarmente importante, perché “quando si evitano completamente alcune attività, il cervello non riesce a ricalibrarsi”, e a capire che il movimento è sicuro e non pericoloso.

Il paziente dello Spaulding Michael Cross spiega che
imparare a ridurre i propri messaggi negativi è stato provvidenziale.
L’imprenditore 68enne in pensione è rimasto gravemente ferito nel 2019 cadendo su una lastra di acciaio accanto a un cassonetto all’aperto. Cross si è sottoposto a svariati interventi chirurgici importanti per guarire le lesioni alle ossa e ai nervi del volto e del braccio. Il dolore divorava tutti i suoi momenti di veglia e Cross temeva che non se ne sarebbe mai liberato.

I danni ai nervi lo hanno fatto sentire sentire come se “fossi punto dalle api 24 ore su 24”, ma cambiare i messaggi del suo cervello gli sta dando speranza per la prima volta dopo l’incidente.

“Sto imparando che la mia mente può controllare i livelli di dolore acuto e ridurli”, spiega. *
Un metodo particolarmente efficace è sostituire le paure con immagini e messaggi positivi ‘di sicurezza’: visto che prima dell’incidente amava le barche, Cross spesso rievoca immagini di se stesso mentre pesca su una magnifica barca all’alba.

 https://www.nationalgeographic.it/la-mente-puo-controllare-e-vincere-il-dolore-fisico

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