La “vita eterna” degli alberi
Una nuova ricerca internazionale rivela i segreti della longevità nelle*specie arboree.
Una nuova ricerca internazionale, pubblicata su Nature Communications, dimostra per la prima volta il carattere universale della relazione inversa fra velocità di accrescimento e longevità negli alberi. Gli alberi a rapida crescita hanno minori aspettative di vita e i nuovi risultati dimostrano che questa legge è all’opera in specie evolutivamente distanti (dalle conifere alle piante a fiore) nei diversi climi del Pianeta (dalle fredde foreste della taiga fino a quelle tropicali).
Mappando un maestoso faggio alto 40 m nella Riserva Statale di Foresta Umbra nel Parco Nazionale del Gargano
Geografia della longevità delle specie arboree
Per raggiungere questo risultato è stato necessario costruire una banca dati unica caratterizzata da oltre 200mila serie di crescita ottenute da 110 specie arboree: il risultato di uno sforzo internazionale che ha unito gruppi di ricerca europei, nord e sud americani, coordinati da Roel Brienen della School of Geography dell’Università di Leeds (UK).
Allo studio hanno partecipato per l’Italia i ricercatori del Laboratorio di Dendroecologia dell’Università della Tuscia Alfredo Di Filippo, Michele Baliva e Gianluca Piovesan che hanno contribuito con i dati di molti anni di ricerche di campo dedicate alla scoperta di alcune fra le più integre foreste vetuste d’Europa e allo studio dei segreti della longevità degli alberi.
“Questo studio spinge in avanti le conoscenze sulla fenomenologia della longevità nelle specie arboree, finora concentrate soprattutto sulle specie di foreste boreali o temperate – dichiara Alfredo Di Filippo – In un precedente lavoro sugli alberi temperati decidui dell’Emisfero Nord avevamo già descritto come i fattori che riducono la crescita promuovono la longevità negli alberi.
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Dal Giappone agli Stati Uniti, le specie mesofile (come faggio o aceri) avevano mostrato una diminuzione di 30 anni dell’età massima per ogni aumento di 1°C della temperatura del sito. Come conferma lo studio, le riduzioni di longevità non sono il risultato diretto della temperatura, ma dell’effetto indiretto esercitato dal clima locale sulla produttività arborea”.
In realtà la legge che lega crescita e longevità è da lungo conosciuta in*dendrocronologia.
“Gli alberi, come tutti gli organismi viventi, tendono a massimizzare la fitness, ossia il patrimonio genetico trasmesso alle generazioni successive. Ogni specie lignificante, in base al programma scritto nel patrimonio genetico e in relazione a un determinato ambiente, investe i fotosintetati in modo diverso tra crescita (per vincere la competizione), riproduzione (per lasciare alle generazioni future il compito di perpetuare la specie) e processi metabolici per la sopravvivenza (accumulo di riserve, deposizione nel legno di composti antisettici, massa volumica) – continua Gianluca Piovesan – Ciò che rende però gli alberi di estremo interesse è l’assenza di un invecchiamento programmato nel cambio, quell’insieme di cellule meristematiche che rigenerano i tessuti di conduzione.
In teoria, quindi, gli alberi sono immortali e si possono accrescere per anni e secoli praticamente all’infinito.
Allora perché un albero muore? Il perché di questa relazione inversa tra crescita e longevità, valida sia a livello interspecifico sia a quello intraspecifico, non è del tutto chiaro. Sembra infatti che una determinata specie di albero, raggiunta una dimensione limite (massima per le condizioni ecologiche locali) divenga più suscettibile ai disturbi abiotici (vento, siccità, fulmini) e/o biotici (attacco di insetti) che ne determinano la morte”.
DA CARLO ANDRIANI
www.nationalgeographic.it
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