Ramanujan Srinivasa Aaiyangar, geniale matematico indiano, nacque il 22 dicembre 1887 e morì il 26 aprile 1920 a soli 33 anni. Era privo di istruzione e proveniva da uno sconosciuto villaggio dell’India. Egli rappresenta un tipico esempio di genio innato.
Ramanujan è stato uno dei più grandi matematici di tutti i tempi, al pari di Gauss o di Eulero, nonché un prodigio nelle capacità di calcolo: una specie di Mozart della matematica. Dotato di un talento straordinario per la teoria dei numeri, ha lasciato taccuini (Notebooks di Ramanujan) pieni di formule. Ancora oggi ci si chiede come abbia potuto scoprirle senza poterne dare delle vere dimostrazioni.
Si racconta che il grande matematico inglese Hardy, dicesse a Ramanujan malato di tubercolosi nell’ospedale di Putney: “Il numero del mio taxi è il 1729, mi sembra un numero alquanto stupido“. Al che Ramanujan rispose: “No Hardy! No! E’ un numero molto interessante. Il più piccolo esprimibile come somma di due cubi in due diversi modi: 1729 = 10^3 + 9^3, 1729 = 12^3 + 1^3 “.
Ramanujan nacque a Kumbakonam presso Madras nel 1887, non in un grande centro intellettuale, purtroppo, ma proprio nella parte sbagliata del mondo, da una famiglia poverissima anche se di casta elevata. Fin dalla più tenera età, Ramanujan, si era appassionato ai numeri e alla matematica e aveva letto ogni libro che gli venisse a tiro. Poverissimo e con una moglie da mantenere accetta di lavorare come impiegato al porto di Madras, con uno stipendio di 20 sterline annue. Nel gennaio 1913 viene scoperto dal grande matematico inglese G.H. Hardy, docente di matematica a Cambridge, vincitore di diversi premi e il più illustre matematico inglese. Hardy intuì immediatamente il genio matematico del povero indiano e si offrì di aiutarlo in tutti i modi possibili. Per liberarlo dai problemi economici e per permettergli di continuare gli studi lo fece venire a Cambridge, ove all’età di 30 anni fu eletto Fellow della Royal Society. Morirà, purtroppo, all’età di 33 anni, nel 1918 malato di tubercolosi, tra le braccia della moglie. Hardy, per ricordare il genio di Ramanujan, scriverà:
“Quando sono depresso e costretto ad ascoltare gente pomposa e noiosa, mi dico: “Be’, io ho fatto una cosa che Voi non avreste mai potuto fare e cioè aver collaborato con Ramanujan pressappoco alla pari“.
Qui di seguito riporto alcune sensazionali formule scoperte da Ramanujan:
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Tratto da: www.matematicaeliberaricerca.com
Ramanujan Srinivasa Aaiyangar
A cura di Angelo Mastroianni, 30.04.2004, tratto da: www.torinoscienza.it
Per gli appassionati di matematica, Ramanujan è un personaggio che fa venire i brividi, che suscita un misto di ammirazione, stupore, incredulità, amarezza. Non si può separare l’interesse per l’opera dalla curiosità per la vita, ciò accade puntualmente per tutti i grandi “eroi romantici” della scienza o dell’arte.
La brevità della sua vita e della sua bibliografia ci fa rivivere l’amarezza per la prematura scomparsa dal mondo e dalla matematica di Evariste Galois o di Niels Abel.
La creatività di Ramanujan, come quella di Frederic Chopin, non venne intaccata dalla malattia: entrambi continuarono a concepire i loro capolavori dal letto in cui morirono di tubercolosi. L’intuito impressionante, la capacità di anticipare i tempi, l’originalità, l’autolesionismo suscitano la stessa incredulità per quell’indecifrabile prodigio che era Ettore Majorana.
Il tentativo di suicidio e altri momenti di instabilità di Ramanujan ci ricordano quelli, purtroppo andati a termine, di Alan Turing e Ludwig Boltzmann, e le menti disturbate o del tutto folli di Georg Cantor, Kurt Goedel, John Nash. La frenesia nel calcolo è della stessa natura che animò la vita di Paul Erdos. Qualcuno paragonò il ritrovamento di un quaderno perduto di Ramanujan all’eventuale scoperta di una bozza della decima sinfonia di Ludwig van Beethoven.
L’accostamento tra matematica e arte potrà apparire sconcertante. Inoltre, proprio questi fuoriclasse contribuiscono a un pericoloso e diffuso pregiudizio sui matematici e sulla matematica: cioè che questa non venga considerata (al pari dell’arte) come una scoperta di ordine nell’universo, una delle più belle creazioni della mente umana.
Ma una disciplina arida, pericolosa, col suo linguaggio impossibile, destinata a pochi pazzoidi soli e incompresi. La figura di Ramanujan è l’ideale per smentire questi pregiudizi: pochi, forse nessuno, tra i grandi matematici hanno operato con un processo creativo così vicino a quello dell’artista come ha fatto Ramanujan.
E se alcuni grandi che hanno segnato la scienza hanno avuto un’esistenza “diversa” dalle persone comuni era perché, come Chopin e Beethoven, erano delle singole, grandi eccezioni. Non bisogna dimenticare che i matematici in generale sono persone del tutto normali, solo forse con una maggiore capacità di coniugare la fantasia con la ragione.
Srinivasa Iyengar Ramanujan era, appunto, un’eccezione. Nato il 22 dicembre del 1887 a Erode, nell’India meridionale, Ramanujan visse l’infanzia e l’adolescenza a Kumbakonam, circondato dalla spiritualita’ della sua casta: i brahmani. Tra la miriade di divinità, Namagiri era quella cara alla sua famiflia. Era Namagiri, secondo lui, la “musa” che lo ispirava e che gli appariva in sogno svelandogli i segreti dei numeri. Nonostante la casta, le sue condizioni erano piuttosto misere, Ramanujan avrebbe sofferto spesso la fame. Le sue abilità matematiche si svilupparono fin dalla scuola, in parallelo a un’ipersensibilità quasi patologica verso un mancato riconoscimento, un insuccesso o qualsiasi cosa di cui vergognarsi. Ad esempio, scoprire che delle relazioni trigonometriche che aveva ricavato erano state trovate un secolo e mezzo prima nientemeno che da Leonhard Euler, fu per lui una mortificazione tale che quando se ne accorse nascose i calcoli nel tetto di paglia. Con quell’ingenuità che non avrebbe mai perso, e che avrebbe incantato i matematici occidentali, non riusciva a rendersi conto di quanto fosse eccezionale riottenere da solo un risultato del grande Euler. Un’altra volta, da ragazzino, era rimasto irreversibilmente offeso perché un suo amico aveva preso un voto più alto in matematica.
Ma non si gettò completamente nella matematica se non fino al primo incontro importante della sua vita: “A Synopsis of Elementary Results in Pure and Applied Mathematics”, di George S. Carr. Per un normale studente, la “Synopsis” era poco più che un formulario, una raccota di circa cinquemila teoremi e formule in svariati settori della matematica. Non per il diamante grezzo Ramanujan: seduto nel portico della sua casa, a due passi dal tempio, passava ore e ore con una lavagnetta manipolando numeri, formule, ricavando da solo i teoremi e i risultati del libro. Era questa la sua principale attività, anche a lezione al College. Il risultato del totale disinteresse per le altre materie segnò per sempre la sua carriera: venne bocciato più volte ed escluso da due Colleges, quindi privato delle relative borse di studio.
A rendere la sua povertà ancora più assurda, c’era il fatto che sapeva andare oltre il libro, ma molto, molto più lontano. Otteneva risultati che avrebbero sbalordito i matematici di tutto il mondo, fino a oggi. Completamente all’oscuro delle notazioni più usate e di cosa fosse già noto alla comunità dei matematici, Ramanujan a volte riscopriva cose già note (ma da autodidatta, è come scoprirne di nuove). Ogni tanto trovava anche risultati sbagliati. Il più delle volte però, le proprietà dei numeri, delle serie, delle frazioni continue, degli integrali (e molto altro ancora) che “vedeva” senza dimostrarle erano preziosissime perle, che i matematici avrebbero impiegato anni per estrarle dall’ostrica, per dimostrarle. Senza insegnamenti, senza laurea, solo con la “Synopsis”, la lavagnetta o la carta che non bastava mai (la riutilizzava con inchiostro diverso), Ramanujan aveva imparato, da solo, a fare matematica come nessun altro sapeva: “sto tracciando un nuovo percorso tutto mio”, avrebbe scritto. Senza né soldi né lavoro, la madre Komalatammal gli diede in sposa una bambina di nove anni, Janaki che, come era tipico per le spose bambine, non poteva vivere con lui fino alla pubertà. Iniziò allora un periodo di peregrinazioni da una città all’altra, in cerca di un lavoro, presentandosi da personaggi ritenuti influenti, con gli incomprensibili quaderni per curriculum e a volte senza i soldi per il cibo o il treno. Alla fine Ramanujan, il più grande matematico indiano, uno dei più originali di sempre, trovò un lavoro a Madras come … contabile!
Ramanujan riuscì anche a pubblicare dei risultati sui numeri di Bernoulli. Ma non divenne famoso per quello (almeno non subito), a portarlo nel mondo della matematica sarebbe stato il secondo grande incontro della sua vita: Godfrey H. Hardy, l’eminente matematico del Trinity College di Cambridge. Tra le lettere che gli amici gli consigliarono di inviare in Europa, questa arrivò ad Hardy: Gentile Signore, mi pregio di presentarmi a Voi in qualità di contabile […] con un salario di sole 20 sterline l’anno. Al momento ho quasi ventitré anni. Non ho ricevuto un’istruzione universitaria […] Dopo aver lasciato la scuola, ho utilizzato il tempo libero a mia disposizione per occuparmi di matematica […] e i risultati che ho ottenuto sono definiti dai matematici di queste parti “sorprendenti“
Con umiltà e sfacciataggine, Ramanujan proseguiva elencando alcuni suoi studi: ho trovato una funzione che rappresenta esattamente il numero di numeri primi minori di x.
“Esattamente“, diceva. Si sbagliava, ma la lettera conteneva circa nove pagine allegate di altri teoremi. Il pacato e inglesissimo Hardy non sapeva ancora che la sua vita (così come quella di Ramanujan) stava per cambiare per sempre. Sconcertato, mostrò la lettera a tutti. Riconobbero qualcosa su integrali e serie, eppure anche i risultati noti apparivano in una veste nuova. Ma c’era poi qualcosa che sembrava davvero provenire da un altro pianeta.
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Di teoremi come questo sulle frazioni continue, Hardy, la massima autorità matematica inglese dell’epoca, non riusciva a capacitarsi: “mi sconfissero del tutto, non avevo mai visto niente di simile prima di allora. Una sola occhiata è sufficiente a mostrare che potevano essere stati elaborati solo da un matematico di grandissimo valore (…) Devono essere veri, perché se non lo fossero, nessuno avrebbe un’immaginazione tale da inventarli“. Oltre alla difficoltà di arrivare a risultati di tale eleganza (notare la strana simmetria dei coefficienti: 1, -2, 4, -3, 1 al numeratore e 1, 3, 4, -2, 1 al numeratore) con oggetti così complessi, c’era il problema di dimostrarne la verità. L’originalissimo bagaglio matematico di Ramanujan non conteneva infatti il concetto fondamentale di dimostrazione.
Seguì uno scambio epistolare tra i due, con Hardy sempre più incuriosito e più insistente sulle dimostrazioni. Presto avrebbe smosso le sue conoscenze per portare Ramanujan in Inghilterra. Ma a un brahmano era rigorosamente vietato oltrepassare l’oceano. Almeno ora Ramanujan non era più solo: nella matematica che conta sapevano di lui. Infatti dall’India arrivò la tanto attesa borsa di studio. Ora, anche se senza laurea, Ramanujan era un matematico vero, che pubblicava articoli, frequentava la biblioteca del Presidency College di Madras, calcolava anche di notte alla sua maniera febbrile e appassionata: “a volte bisognava ricordargli di mangiare“, disse Janaki.
Alla fine, per le influenze di amici, soprattutto di Hardy, ma anche grazie alla sua Namagiri, Ramanujan si convinse a sfidare l’ortodossia e a salpare per Cambridge. “Hardy e Ramanujan” è una coppia che i matematici di tutto il mondo avrebbero conosciuto presto leggendo gli articoli pubblicati a più mani che nascevano da quell’immensa miniera d’oro che erano le idee e i quaderni di Ramanujan. Sotto l’influenza di Hardy e di altri matematici di Cambridge, il diamante grezzo si stava rapidamente trasformando in diamante puro.
Rieducare Ramanujan alla matematica “terrestre” non era facile. Disse Hardy: “Avevo anche paura che, se avessi insistito troppo su questioni che Ramanujan trovava seccanti, avrei potuto distruggere la sua sicurezza o rompere l’incantesimo della sua ispirazione […] ovviamente appresi da lui molto più di quanto lui apprese da me“. La descrizione migliore l’ha data il matematico Laurence Young: “era come scrivere su una lavagna coperta di stralci di una lezione più interessante“. Per lui si stravolgevano le regole: nel 1916 gli venne assegnato per meriti il diploma B. A. (la nostra laurea), per via di uno dei suoi lavori più importanti (sui numeri altamente composti). Avrebbe poi ricevuto due tra le massime onorificenze accademiche inglesi: Fellow del Trinity College e della Royal Society.
Purtroppo però, per Ramanujan le cose sarebbero andate per il verso sbagliato e l’Inghilterra si trasformò da luogo che gli diede l’immortalità nel posto dove iniziò la sua fine. Per quanto fosse felice di fare matematica a quei livelli e per quanto fosse circondato dalla stima di tutti, Ramanujan non riuscì mai a inserirsi nell’ambiente di Cambridge. Non lo aiutarono il carattere degli inglesi, la distanza culturale enorme che li separava e neanche Hardy, col quale entrò in confidenze personali solo molto tempo dopo.
Ci fu un ritorno emblematico di quella vergogna esagerata e incomprensibile che fece dubitare addirittura del suo equilibrio mentale. Di fronte al rifiuto della terza porzione di un piatto che aveva cucinato per degli amici invitati a cena, Ramanujan cedette di nuovo allo stress, al superlavoro o chissà a quale processo mentale tutto suo e andò via. Ma non come un bambino che si chiude in camera a piangere, Ramanujan andò via senza dare notizie per qualche giorno!
Il senso di esclusione e le difficoltà di adattamento che minarono la psiche e il fisico di Ramanujan sono ben resi da Robert Kanigel nel libro “The man who saw infinity” (finalmente edito in Italia: “L’uomo che vide l’infinito”, Rizzoli) da cui sono tratte questa storia e tutte le citazioni: “Nell’India meridionale, i confini tra l’interno e l’esterno non erano cosi’ fissi e immutabili come in Inghilterra […] In India muri e finestre erano piu’ permeabili. Insetti, odori e suoni portavano l’esterno all’interno. Tamie e lucertole scorrazzavano attraverso le imposte delle finestre. A Cambridge, ivece, tra la solida pietra di mura di cinquecento anni, persisteva un onnipresente senso di divisione e demarcazione“.
Eppure “il freddo inglese”, come lo chiama Kanigel, non affievoliva le capacità matematiche di Ramanujan. Lo dimostra il lavoro svolto con Hardy sulla funzione di partizione p(n): il numero di modi in cui un numero intero può essere ottenuto come somma di altri interi (ad esempio, p(4)=5 perché ci sono 5 modi per ottenere 4 come somma di interi: 1+1+1+1, 1+1+2, 2+2, 1+3, 4). I due posero le basi per trovare la formula esatta di p(n) per n qualsiasi, un risultato spettacolare per i matematici.
Ma a un certo punto Ramanujan si ammalò, non fu subito chiaro che era tubercolosi. Comincio’ a vagare da un sanatorio all’altro, soffrendo la fame e il freddo (la cura dell’epoca prevedeva la giacenza in stanze non riscaldate). Lo stress per la malattia, problemi a casa con Komalatammal e Janaki, l’insofferenza per il cibo inglese (era rigorosamente vegetariano) non facevano che aggravare la situazione. I problemi col cibo potevano diventare una vera e propria ossessione, se alla pratica vegetariana (inopportuna con la tisi) si aggiunge l’ostinata testardaggine di Ramanujan, che non voleva adattarsi.
Non è ancora chiaro il motivo, ma un giorno i nervi gli cedettero ancora e tentò di uccidersi sotto la metropolitana di Londra. Una guardia fermò il treno a pochi metri da Ramanujan che si ferì alle gambe. C’è un altro episodio che può far riflettere sul suo stato: dopo aver bevuto una bevanda confezionata, l’Ovaltine, convinto che fosse a base vegetale, lesse l’etichetta per caso e scoprì che conteneva estratti animali. Mortificato, scappò come al solito e interpretò il bombardamento che lo colse per strada non come uno degli ormai consueti raid aerei della grande guerra (era il 1918), ma come una punizione divina per aver mangiato carne!
L’elezione a membro della Royal Society gli risollevò un po’ il morale, ma non si poté fare a meno di riportarlo in India. Anche Ramanujan sapeva che la fine era vicina, ma non perse l’allegria e lo spirito arguto che lo rendevano amabile con tutti. Tornato in India, continuò a vagare da un luogo di cura all’altro, godendosi un po’ di vita coniugale, continuando a lavorare e a dimagrire, lui che era stato sempre decisamente grasso. Janaki racconta che, ridotto ormai pelle e ossa, prima di perdere conoscenza “non c’era altro che la matematica … Quattro giorni prima di morire stava ancora scarabocchiando“.
A trentadue anni, dopo aver sconvolto la matematica con i suoi teoremi e con il suo stile unico, Ramanujan se ne andò il 26 aprile del 1920, a Madras. Il necrologio scritto da Hardy venne pubblicato su Nature (105, pagg. 494-495 1920). Hardy avrebbe curato la pubblicazione delle sue opere (“Collected Papers of Srinivasa Ramanujan”, Cambridge University Press, 1927) e avrebbe scritto anche un libro su di lui (“Ramanujan”, Cambridge University Press, 1940).
Qualche tempo prima di morire, Ramanujan aveva rivisto quell’amico di scuola che lo aveva offeso con un voto più alto e gli aveva detto: “Ho un’amica che mi ama molto più di tutti voi e che non vuole assolutamente lasciarmi“. Si riferiva alla febbre da tisi, ma a noi piace applicare le stesse parole all’unica vera amica di Ramanujan, che davvero non lo abbandonò mai: la matematica.
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