La diagnosi dell’Alzheimer potrebbe presto andare incontro a un’evoluzione. Uno studio di ricercatori dell’Araclon, un’azienda spagnola, sta per giungere alla messa a punto di una nuova analisi del sangue che potrebbe indicare l’insorgenza della malattia.
Il nuovo metodo, descritto sulle pagine del Journal of Alzheimer’s Disease, si basa sulla valutazione dei livelli del peptide amiloide nel sangue, quello responsabile dello sviluppo della patologia.
Secondo i ricercatori spagnoli, la concentrazione del peptide libero sarebbe proporzionale alla presenza della malattia e al suo stadio di evoluzione: “il test è in grado di distinguere tra individui sani e pazienti con lieve deficit cognitivo che prelude all’Alzheimer”, hanno spiegato gli autori.
Anche un team di ricercatori americani sta lavorando allo stesso obiettivo. Gli scienziati dello Scripps Research Institute, in Florida,in Florida, hanno messo a punto un sistema diagnostico in grado di rilevare la presenza della patologia neurologica grazie a migliaia di molecole sintetiche utilizzate per ricercare specifici anticorpi.
Gli scienziati americani partono dal presupposto che patologie come l’Alzheimer causano la produzione di proteine modificate, nei confronti delle quali l’organismo reagisce. Per arrivare a identificare tali proteine, il team di ricerca guidato dal prof. Kodadek ha messo in atto una strategia innovativa servendosi di peptoidi, una serie di molecole che svolgono un lavoro di ricerca sugli anticorpi potenzialmente modificati che circolano nel sangue.
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Come base per la sperimentazione, i ricercatori si sono serviti di un gruppo di topi colpiti da encefalite autoimmune, malattia simile alla sclerosi multipla. Grazie a circa mille peptoidi, i medici sono riusciti a individuare una piccola percentuale di proteine modificate che contraddistinguevano i campioni di sangue dei soggetti colpiti dalla malattia. I ricercatori hanno poi trasferito questa conoscenza sul morbo di Alzheimer, identificando tre peptoidi che differenziano le persone malate da quelle sane.
Il test realizzato in base a questa sperimentazione, pubblicata sulla rivista Cell, affronterà ora un trial con numeri più importanti e che riguarderà soggetti provenienti da diverse regioni del mondo e che mostrano diversi gradi della patologia. Per arrivare a una vera e propria diffusione del test, tuttavia, sarà necessario anche individuare una procedura più accessibile, sia a livello di costi che di complessità generale.
Un altro gruppo di ricercatori del Columbia University Medical Center di New York ha invece scoperto una determinata concentrazione di un particolare peptide nel flusso sanguigno che potrebbe anche in questo caso indicare un elevato rischio di sviluppo dell’Alzheimer. La ricerca statunitense ha identificato nel peptide Amiloide Beta 42 il possibile indicatore. Secondo i risultati dello studio, nel sangue dei pazienti che avrebbero successivamente sviluppato l’Alzheimer erano stati riscontrati elevati livelli di questo peptide. Questi livelli, inoltre, sono diminuiti subito dopo l’inizio della malattia, con un meccanismo simile a quello delle concentrazioni dei lipidi nei casi di attacco cardiaco: livelli elevati prima, livelli diminuiti subito dopo.
Secondo gli scienziati la diminuzione dei livelli di A Beta 42 potrebbe essere giustificata da una compartimentazione del peptide nel liquido cerebrospinale (o liquor) che riempie le cavità all’interno del cervello. Per analizzare il liquor, però, occorrerebbe un prelievo spinale molto più invasivo, meno ripetibile e più doloroso di un semplice esame del sangue.
La possibilità quindi di tenere sotto controllo il livello del peptide incriminato attraverso una semplice prelievo sanguigno sarebbe di gran lunga preferibile e permetterebbe ai medici di prevedere lo sviluppo e il decorso della malattia con un certo anticipo. “Una diagnosi precoce potrebbe essere realmente importante per contrastare la patologia”, concludono i ricercatori.
La scoperta del Columbia University Medical Center di New York apre nuove e incoraggianti prospettive diagnostiche, consentendo di capire per tempo se la persona rischia di ammalarsi di Alzheimer o di un altro tipo di demenza e, conseguentemente, predisporre la profilassi e le terapie adeguate.
Numerose altre indagini scientifiche hanno dimostrato, infatti, come prevenire per tempo l’Alzheimer, soprattutto modificando alimentazione e stile di vita, possa ridurre significativamente le probabilità di ammalarsi nel futuro.
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