Negli ultimi mesi le cronache tecnologiche sono state caratterizzate dal numero sempre crescente di possibili applicazioni della tecnologia della stampa 3D: dalle pistole alla pizza, fino ai “mantelli dell’invisibilità”, anche grazie ai miglioramenti sia dal punto di vista dell’hardware (ormai disponibile a prezzi più che abbordabili grazie a modelli “low-cost”) che software (tanto che la stampa 3D è ora supportata anche da Windows 8.1). Ma la nuova frontiera di questa tecnologia è rappresentata dal bioporinting, ossia la “stampa” di organi umani.
Non tutte le stampanti 3D funzionano nello stesso modo, ma fondamentalmente il principio di base prevede la stampa di strati sottilissimi (si parla di pochi micrometri) che vengono sovrapposti come una sfoglia, per creare l’oggetto desiderato. Questo perché il computer collegato alla stampante elabora il file 3D, “scomponendolo” in una serie di porzioni in sezione trasversale.
Ma cosa succederebbe se, anziché leghe plastiche, si stampasse qualcosa utilizzando cellule umane? Non stiamo parlando di una tecnologia futuristica, potenzialmente disponibile tra decenni, ma di qualcosa di reale e teoricamente già realizzabile. La startup statunitense Organovo, in collaborazione con Invetech, ha messo a punto Novogen MMX Bioprinter, la prima stampante 3D al mondo in grado di ricreare tessuti umani.
Il dispositivo funziona con due testine robotiche di precisione: una stende lo strato cellulare, l’altra un idrogel, o matrice di supporto. La precisione è l’elemento alla base dell’intero processo, ed è un aspetto particolarmente complesso: Invetech ha messo a punto un sistema di calibrazione in grado di posizionare ogni singola cellula con un margine di errore di pochissmi micrometri (la millesima parte di un millimetro).
Fino ad ora la Novogen MMX Bioprinter è riuscita a produrre vasi sanguigni e muscoli, ma la realizzazione più incredibile è stata quella di un mini-fegato da 4 millimetri di diametro e e mezzo millimetro di spessore, stampato grazie alla sovrapposizione di 20 strati di epatociti e cellule di Ito (caratteristiche del fegato, conosciute anche come cellule stellate epatiche). La stampante 3D ha poi aggiunto le cellule che permettono lo sviluppo delle reti microvascolari all’interno del tessuto.
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Risultato? Un mini-fegato in grado di sopravvivere per cinque giorni, producendo proteine, colesterolo e persino metabolizzando l’alcool, proprio come un “normale” fegato umano. Precisazione forse eccessiva, dal momento che anche quello prodotto dalla stampante è a tutti gli effetti un fegato umano.
Si tratta di un consistente passo in avanti rispetto a quanto era già stato fatto dai ricercatori della Princeton University, che alcuni mesi fa avevano messo a punto un “orecchio bionico” con una struttura fatta di un gel basato su un polimero pazaialmente costituito di cellule bovine. Gli studiosi dell’ateneo americano sono riusciti a creare un dispositivo in grado di ridare l’udito ai sordi. Ed anche, per quanto possa suonare buffo, di funzionare come radio.
Un altro tipo di applicazione è l’oggetto di studio di un gruppo di ricercatori dell’Istituto di Medicina Rigenerativa della Wake Forest University (Nord Carolina, USA) guidato dal professor Yoo James, ossia stampare pelle direttamente sulle ferite da ustione. “La cosa straordinaria di questo dispositivo è il fatto di essere dotato di un sistema di scansione che identifica l’estensione e la profondità della ferita, perché ogni ferita è differente. Questa scansione viene convertita in immagini digitali 3D, e questo determina quanti strati di cellule dovranno essere depositate per ripristinare la normale configurazione del tessuto danneggiato”, ha affermato James.
Fegati, orecchie, pelle, e chissà cos’altro. La stampa 3D, che forse rappresenta l’ultima inesplorata frontiera del settore tecnologico, offre possibilità enormi ed innumerevoli, quasi impossibili da immaginare. Un po’ come il robot-umano del racconto “L’uomo bicentenario” di Isaac Asimov (interpretato da Robin WIlliams nella trasposizione cinematografica) potremmo essere presto in grado di progettare “pezzi di ricambio” perfettamente funzionanti per il nostro corpo.
Questo, com’è ovvio, porterà a lunghe discussioni sul tema della bio-etica, e su quanto in là sia giusto spingersi con questo tipo di innovazioni, ma è indubbio che la possibilità di creare organi funzionanti e che verrebbero accettati senza problemi di rigetto dal corpo del ricevente merita un’attenzione particolare, dal momento che potrebbe rappresentare un punto di svolta non indifferente nella storia della medicina.
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